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"Io, campionessa paralimpica ho un sogno: lavorare in Polizia"

Ha 21 anni, è ipovedente e fa raccolta di medaglie e record mondiali: "Ma il nuoto non è tutto. Studio psicologia per aiutare gli altri"

"Io, campionessa paralimpica ho un sogno: lavorare in Polizia"

Carlotta Gilli ha solo 21 anni, ma parla da veterana. Mai un dubbio (almeno all'apparenza): sicurezza e determinazione degne di un mental coach. Un grande avvenire dietro le spalle.

Il futuro è suo. Ma anche presente e passato nuotano al suo fianco. Proteggendola su quel pelo d'acqua che lei schiaffeggia a colpi di potenti bracciate.

Una piemontese d'acciaio (è nata a Torino il 13 gennaio 2001), forgiata col sacro fuoco del successo; quasi una Wonder Woman. E in un mondo maschile di Batman e Superman, ecco farsi avanti «Wonder Gilli» nel suo costume di «scena», inteso come costume da bagno.

Così Carlotta compie imprese straordinarie. Tanto da essere diventata «la» Campionessa paralimpica di nuoto per antonomasia. La «malattia di Stargardt» le ha fatto progressivamente perdere la vista, ma non l'ha fermata, anzi è stata carburante nel motore.

Risultato: un palmarès da Guinness dei primati. Negli ultimi due anni ben 5 medaglie, olimpiche a «Tokyo 2020» (2 ori, 2 argenti e 1 bronzo) e mondiali a «Madeira 2022» (1 oro, 1 argento e 2 bronzi).

Carlotta studia psicologia, fa parte della squadra delle Fiamme Oro della Polizia ed è - assicura chi la conosce bene - «un esempio di forza, tenacia e talento, dentro e fuori dalla piscina». Impegnatissima nel promuovere iniziative solidali: ambasciatrice della Fondazione Telethon a favore della ricerca sulle malattie genetiche rare; inoltre sostiene progetti per aiutare l'ambiente e le persone più fragili come madrina dell'iniziativa «Campioni Ogni Giorno», promossa da Procter & Gamble nell'ambito del programma di cittadinanza d'impresa «P&G per l'Italia».

Di cosa si tratta?

«È un progetto fondato sulla convinzione che ogni piccolo gesto può fare la differenza per rendere l'Italia più inclusiva e sostenibile».

Obiettivo?

«Realizzare in Italia oltre due milioni di progetti per le persone e per l'ambiente entro il 2026, anno in cui il nostro Paese ospiterà i Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali Milano Cortina».

Performance sportive e impegno sociale. Due facce della stessa medaglia?

«Per me è fondamentale crescere sia come atleta che come essere umano, impegnandomi in prima persona».

Hai trasformato il tuo deficit visivo in una risorsa che ti dà forza, riuscendola anche a metterla al servizio del prossimo.

«La disabilità non è un disvalore, è una caratteristica che fa parte di noi».

I campioni paralimpici sono di «serie B»?

«No. Ma, purtroppo, sono considerati tali. C'è un problema culturale da risolvere. E io, con il mio esempio, cerco di dare un piccolo contributo».

In che consiste la «malattia di Stargardt»?

«Si tratta di una retinopatia degenerativa su base genetica che ha compromesso progressivamente la vista».

Non c'è modo di guarire o migliorare il decorso?

«La malattia non regredisce ma, nella migliore delle ipotesi, può solo stabilizzarsi attraverso un decorso standard. Nella prima fase della vita i bambini sono normovedenti, io ho percepito le prime difficoltà visive in seconda elementare e ad accorgersene è stata la maestra dal momento che avevo difficoltà a copiare correttamente gli appunti dalla lavagna e mi avvicinavo eccessivamente al foglio quando dovevo scrivere».

Così è cominciata l'odissea delle visite specialistiche.

«Non è stato facile arrivare alla diagnosi. Con i miei genitori, entrambi medici, abbiamo impiegato circa due anni, finché l'indagine genetica ha confermato i sospetti».

E il peggioramento è stato inarrestabile.

«Il mio visus, come è definito il mio coefficiente di vista, è gradualmente diminuito passando nell'arco di 6 anni dai 10/10 su entrambi gli occhi (visus che avevo all'età di 4 anni) a 1/10 all'età di 9 anni e dal 2010 il visus è stabile a 1/10.

Eppure i tuoi occhi sono bellissimi.

«L'estetica non c'entra nulla. Il problema è che vedo tutto in piccolo».

Ombre?

«No, da vicino scorgo distintamente le cose. Ma in versione mini».

Un limite che però non ti ha fermato.

«Ho sempre considerato questa patologia una specie di compagna di strada. Che ho tenuto sempre per mano. Senza mai litigare con le. Anzi, trasformandola nella mia migliore amica».

È grazie a questo «segreto» che, oltre alle tante medaglie olimpiche e mondiali, puoi vantare anche 8 titoli Europei, e una quindicina di record in varie specialità.

«Le vittorie in gara sono entusiasmanti, ma le medaglie vere e più importanti sono quelle che conquisto ogni giorno con la dedizione che metto per superare le difficoltà dentro e fuori la piscina».

Come immagini la tua vita quando smetterai l'attività agonistica?

«Vorrei restare in Polizia. Magari mettendo a profitto la mia laurea in Psicologia».

Da cosa nasce questo desiderio di vestire la divisa della Polizia?

«Ammiro i poliziotti per il ruolo che ricoprono. Il loro aiuto verso i più deboli è in linea con il mio modo di vivere la società».

Ma è vero che da piccola giocava a calcio?

«Ero un maschiaccio. Preferivo il pallone alle bambole».

E poi?

«I miei genitori mi iscrissero a un corso di nuoto. All'inizio non ne ero entusiasta. Preferivo la vasca piccola dei giochi a quella grande delle gare. Poi una istruttrice mi trasmise l'amore per il nuoto. Vinsi la prima medaglia. E da allora non ho più smesso».

Sogni di diventare madre?

«Ora penso ad altro, ma avere dei figli sarebbe bellissimo».

Ma la «malattia di Stargardt» può essere ereditaria?

«Inutile parlarne adesso. Sono abituata ad affrontare i problemi quando si presentano. Trovando di volta in volta la soluzione».

Quanto conta il ruolo dell'allenatore nel successo di un atleta?

«Tanto. Io con il mio coach ho un rapporto ottimale».

L'allenatore deve essere un padre o un fratello maggiore?

«Né l'uno, né l'altro. Deve esserci la giusta distanza improntata sulla professionalità. Ciò non esclude si instauri un rapporto di amicizia e fiducia, ma sempre nel rispetto dei rispettivi ruoli. Nel mio caso è necessario che l'allenatore sia esigente e severo perché io sono un'atleta metodica che pretende da se stessa sempre prestazioni al top».

Che rapporti ha con i suoi colleghi che lo scorso agosto hanno fatto incetta di medaglia agli Europei di nuoto nella piscina più bella del mondo, quella del Foro Italico?

«Qualcuno si mostra più disponibile, mentre altri sono meno cordiali».

Federica Pellgrini ha detto di avere paura a nuotare in mare. A te capita la stessa cosa?

«No, ho vinto diverse gare di nuoto libero. Ma la preparazione è diversa rispetto a quella in piscina».

In mare la fatica aumenta?

«Le energie vanno commisurate in base alla distanza da coprire. La tecnica di nuoto è differente al pari dell'intensità delle bracciate. In mare si deve poi tenere la testa fuori dall'acqua e considerare più variabili: onde, temperatura, correnti».

Ma pure qui hai trionfato.

«Ho partecipato al campionato italiano ad Alghero, riuscendo a conquistare un argento e un bronzo, oltre che una coppa. Un evento bellissimo che mi ha permesso di gareggiare con campioni del calibro di Gregorio Paltrinieri».

Quali sono i tuoi miti femminili?

«Nessuno in particolare. Cerco di cogliere il meglio da qualsiasi persona».

Cosa pensa di quei vip che danno conto sui social dei loro problemi di salute?

«Credo che per una persona famosa sia impossibile tenere nascosta una malattia».

Fedez, ad esempio, l'ha «pubblicizzata» fin dall'inizio, tenendo al corrente i fan di ogni sviluppo clinico.

«Penso che Fedez non l'abbia certo fatto per esibizionismo, ma per proporre un modello virtuoso di resilienza utile a tutti».

L'ex allenatore del Bologna Sinisa Mihajlovic è stato esonerato dal Bologna nonostante la leucemia che lo ha indebolito.

«Mihajlovic, giustamente, non ha mai chiesto trattamenti di favore e ha sempre fatto il suo dovere pur tra gravi difficoltà. La società emiliana avrebbe potuto comportarsi con maggiore sensibilità magari trovando un accordo condiviso».

A che età hai fatto la prima gara?

«A otto anni. Un'emozione indimenticabile. Prima di allora facevo l'allenamento ma poi chiedevo di andare nella vasca piccola a giocare con gli altri bambini. Ma dopo essere salita sul podio per la prima volta tutto è cambiato».

Il grande salto avviene nel 2016.

«È l'anno in cui Marco Dolfin gareggiava alle Paralimpiadi di Rio. Io ero una sua tifosa. Siamo diventati amici e lui mi ha convinta a entrare nell'ambiente paralimpico».

L'anno dopo hai partecipato a una gara a Berlino, capendo che il nuoto ti avrebbe riempito la vita.

«Piscina e libri. Non mi sono più fermata. Bracciate in vasca ed esami all'università, facoltà di in Scienze e Tecniche Psicologiche».

Con la fiamma d'oro della polizia nel cuore.

«E anche il legislatore mi ha dato una mano: finalmente è passata la legge che permette agli atleti paralimpici di essere arruolati proprio come gli olimpici».

Intanto è pure arrivata una laurea honoris causa.

«Una soddisfazione enorme: il titolo di dottore in Teoria e metodologia dell'allenamento è stato conferito a tutti gli atleti olimpici e paralimpici vincitori di medaglie d'oro».

Ora è in dirittura d'arrivo anche la triennale di Psicologia.

«È impegnativo conciliare lo sport ad alti livelli con lo studio, ma ce la farò».

L'allenatore Andrea Grassini è però sempre lì a farti da supporto.

«Lui, insieme ai miei genitori, sono dei punti di riferimento. Sempre pronti a supportarmi nei momenti difficili».

La tua vita non è fatta solo di vittorie.

«Alle vittorie si arriva attraverso percorsi difficili fatti di sacrifici, dolori e rinunce. Ma la soddisfazione finale compensa ogni sforzo».

Un messaggio fondamentale soprattutto per i giovani.

«Io questa estate mi sono divertita e riposata. È bello stare di persona con i propri amici senza diventare schiavi dei social».

Detto da una «nativa digitale» fa un po' impressione.

«Non rinnego la tecnologia del mio tempo che offre grandissime opportunità, ma alla vita virtuale preferirò sempre un'esistenza reale, fatta di contatti veri, non mediati dallo schermo di un iPhone».

Quali sono i tempi della tua giornata-tipo?

«Due sedute di allenamento, spezzate da una pausa-studio e un intervallo-pranzo».

Cominciamo dalla sveglia.

«Di buon mattino. Primo step in piscina dalle 7.30 alle 10. Torno a casa e mi dedico allo studio, pranzo e poi mi alleno ancora dalle 14.30 alle 17. Quando ho la mattina libera, nuoto al pomeriggio e poi vado in palestra».

Una routine francescana.

«Cibo sano e a letto presto».

Dove vivi?

«A Moncalieri, con i miei genitori».

C'è una piscina a Moncalieri?

«È in costruzione. Speriamo la inaugurino presto. Nell'attesa continuo ad allenarmi a Torino. La città dove sono nata.

E che mi ha sempre portato fortuna».

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