Politica

Katzav, il sogno di Israele diventato vergogna

Scandalo, stato di choc, disgusto, è dir poco quando si parla dell’angoscia di Israele da quando ieri l’Avvocato dello Stato Dani Masus ha prospettato l’incriminazione del presidente della Repubblica Moshe Katsav addirittura per stupro oltre che per molestie sessuali con abuso di potere nel posto di lavoro, frode nell’acquisto col denaro pubblico di doni privati, ostruzione della giustizia. È da luglio che i giornali corrono dietro a Aleph, la prima delle impiegate della Presidenza che ha accusato Moshe Katzav di malcomportamento sessuale, e dopo di lei se ne sono aggiunte ben altre nove, fra cui una segretaria che lavorava al ministero del Turismo quando nel 1998-99 Katsav siedeva in quel ruolo, che l’ha accusato di averla proprio stuprata. Delle dieci che sono andate alla polizia, quattro sono state ritenute credibili.
Gli avvocati del Presidente dicono che egli combatterà fino all’ultimo, che il pubblico non deve giudicare prima di sapere bene che cosa dicono le accuse, che si ignora se le donne di cui non si conosce l’identità siano credibili, e che il Presidente combatterà fino all’ultimo per provare che tutte le accuse contro di lui sono una fabbricazione malvagia. Gli avvocati del presidente David Lib’ai, un ex ministro principe del foro, ha ripetuto ieri che ancora l’avvocato dello Stato Mazouz non ha deciso fino in fondo se incriminare il presidente, e che potrebbe ancora ricredersi. Ma data l’accuratezza della lunga indagine di Mazouz, l’insistenza con cui per ben sei volte gli inquirenti sono tornati a interrogare l’accusato nella casa presidenziale nel centro di Gerusalemme del presidente, sempre più triste e sola via via che i mesi passavano, Katzav che domani parlerà, ha un bel dire: la gente, la Camera dei Deputati, si aspettano quasi disperatamente che finalmente, dopo aver resistito sulla sua sedia per più di sei mesi da quando si è aperta la vicenda, il presidente si decida a dimettersi così da permettere alla giustizia di compiere il suo corso.
Se questo non dovesse accadere, occorrono novanta firme dei 120 membri del Parlamento per dimettere il presidente. Ma tutti, e specialmente la gente d’Israele, si aspetta che l’uomo sgomberi il posto di rappresentanza così importante per un Paese sempre attaccato, sempre controverso, spesso in guerra con nemici che fra l’altro in queste ore trasmettono con tono sprezzante e satirico le notizie su Katsav. «Vorrei chiedergli nel nome dei miei figli di dimettersi quanto prima, che smetta di riempire la nostra vita con tutta questa oscenità, con queste volgarità senza senso» mi dice al telefono un’amica che ha quattro figli di cui due nell’esercito. Questa richiesta risuona nei mercati, nelle scuole, nelle strade. Tutti si guardano l’un l’altro e dicono: «Che vergogna. Speriamo che si dimetta subito».
Per capire quale dolore porti la vicenda all’israeliano medio, bisogna comprendere sostanzialmente due punti: il primo riguarda Katsav stesso, che divenuto nel 2000 presidente a soli 54 anni, era nato nel ’45 in una città iraniana, aveva patito la fame con i suoi fin da bambino (era immigrato con la famiglia fuggendo alle persecuzioni a sei anni), aveva lavorato per costruire con le sue mani, insieme agli altri poveri immigranti pieni di fede nel futuro nella nuova nazione ebraica, le case e le strade di Kiryat Malachi, la cittadina di cui era diventato sindaco a soli 24 anni, eletto nelle file del Likud. Da allora, in un coppia che sembrava di ferro insieme a Ghila, un’insegnante piccola e grassoccia, che ha sopportato tutto con dignità e poche cadute di tristezza, che non ha mai abbandonato il suo uomo, ha ricoperto varie cariche ministeriali, ha incarnato il sogno di emancipazione di tanti ebrei mediorentali profughi dai Paesi d’origine, un sefardita quieto e signorile, una figura pacificante, un religioso senza fanatismi.
Forse il suo basso profilo, il suo tono troppo basso, e qui veniamo al secondo punto, strideva tuttavia con la storia di grandi anime che sono state nel passato presidenti dello Stato di Israele, leader originali, speciali, simbolici della creativa del nuovo stato: i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Chaim Herzog, una figura torreggiante come intellettuale e fondatore del sionismo, Yzchak Ben Zvi o Zalman Shazar, pionieri e saggisti autori di libri di storia e di teoria; oppure scienziati, politici, soldati, come Ephraim Katzir, Yzchak Navon, Ezer Weizman. Katsav con la sua storia di sacrifici che piaceva al popolo aveva battuto 67 voti a 53 la candidatura di Simon Peres, a sua volta un gigante, e aveva lasciato tutti stupefatti.
Che dire oggi? Quando la storia esplose, era fresca la delusione per una classe dirigente che non aveva saputo vincere la guerra del Libano, e Katsav si è come confuso, mimetizzato nel senso di crisi generale che ha offuscato il Paese per diversi mesi. Adesso quel tempo ha ceduto il passo a un’accanita determinazione di emendarsi per prepararsi alle prossime sfide, come si vede dalla sostituzione rapida del capo di Stato Maggiore appena dimessosi con quello nuovo, Gabi Ashkenazi, e dalla dura messa in discussione anche di Olmert e di Amir Peretz. Israele chiede a gran voce che il Presidente metta via la maschera del business as usual che ha mantenuto fin qui, e che ceda alla richiesta della gente, che si lasci processare. Che si dimetta. Quando avrà luogo, non sarà un processo facile, si svolgerà probabilmente a porte chiuse, ma in Israele tutte le porte chiuse sono aperte alla stampa, e del giovane presidente che aveva tanto sofferto e che rappresentava una speranza per tanti che come lui hanno sudato e sanguinato per costruire Israele, si parlerà molto ancora, nei particolari certo, e in modo scioccante.

È ironico e triste ricordare il suo augurio all’inizio del suo mandato: «Con l’aiuto di Dio, cercherò di influenzare per il bene».

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