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"L'amore? Non basta. Genitori adottivi non cercate di sbiancare i vostri figli"

Manager, madre di due ragazzi nati in Africa, ha fondato l'associazione "Mamme per la pelle"

"L'amore? Non basta. Genitori adottivi non cercate di sbiancare i vostri figli"

Aldo e Thomas hanno 14 anni, frequentano lo stesso liceo, a Milano, si conoscono appena ma quel poco basta per non piacersi troppo. Aldo vive in periferia, gioca (male) a calcio, ama il rap, arranca a scuola. Thomas suona (bene) il violino, vive in centro e ha i migliori voti della classe. Il primo ha la pelle bianca. Il secondo la pelle nera. Un giorno si azzuffano e per una strana magia si scambiano la pelle. E la vita. Aldo si ritrova nel mondo di Thomas e viceversa. Nasce come libro per ragazzi «Sette giorni per diventare amici» scritto da Gabriella Nobile insieme a suo figlio Fabien Cordera, 17 anni, originario del Congo, adottato quando ne aveva due.

Gabriella Nobile, «ma...»?

«Ma vuole parlare a tutti. Ho voluto raccontare che i giovani sono un passo avanti a noi e non vanno rovinati. Per loro non c'è la pelle bianca o nera. C'è sei simpatico o sei antipatico. Infatti Thomas e Aldo non si piacciono ma il colore della pelle non c'entra niente. Anzi, Aldo è felice di diventare nero. Si vede figo, muscoli, tartaruga, finalmente può giocare a calcio, vive in una casa super bella. E pensa: ma chi sta meglio di me? Poi piano piano si accorge che non è tutto bello, che non è facile, che quella vita non è uguale alla sua vita da bianco. Ed è lì che capisce davvero il razzismo. Il pregiudizio. Quando sale sull'autobus e i controllori vanno dritti solo da lui. Oppure quando gli gridano tornatene al tuo paese, o quando la polizia gli chiede il permesso di soggiorno invece che la carta di identità. È li che capisce che nella società c'è qualcosa che non va. Ma anche Thomas ha i suoi problemi e i suoi pregiudizi da combattere...».

Per esempio?

«Nella mente di Thomas periferia è uguale a disagio uguale a droga. Un preconcetto stupido proprio come quello che i bianchi avevano su di lui. Alla fine entrambi si rendono conto di non essere così lontani, diventano amici, superano le loro paure e le loro fragilità».

È un racconto che parte da vita vissuta?

«Eccome. Mio figlio ha scoperto di essere nero a 8 anni quando gli altri glielo hanno fatto notare».

Come è successo?

«Era fuori dall'oratorio e una signora gli si avvicina e gli dice Allora! Basta chiedere l'elemosina. Tornate al vostro paese. Lui era lì, con gli amichetti, nessuno lo ha difeso. Si è irrigidito. Mamma ma perché? mi ha chiesto. Così come quando a calcio qualcuno gli dice Riprendi il barcone e tornatene a casa tua».

Succede ancora?

«Spessissimo. Lui ha imparato a rispondere con ironia Veramente sono arrivato qui in business class. Magari non trovi quello che ti insulta o ti mette le mani addosso. Ma le microaggressioni sono quotidiane. Entri in un negozio e ti seguono perché hanno paura che rubi, o sull'autobus la vecchietta si sposta, attraversi la strada e la signora si tiene la borsa. Sono piccolissime aggressioni che accadono tutti i giorni. Noi, da genitori, ci siamo raccomandati che abbia sempre i documenti dietro».

Gli avete dato indicazioni precise?

«Se lo fermano gli abbiamo detto che deve stare sereno, sorridere, essere educato e dire io sono italiano, mostrare la carta di identità ed evitare polemiche. Però poi succede che un giorno mi chiama una mamma e mi dice che il figlio di 24 anni era stato fermato 23 volte in un mese. E la 23ª volta aveva dato di matto. Io ho 53 anni e non mi hanno mai fermato. Mai».

Fabien è stato fermato in strada?

«È successo in corso Vercelli, non a Quarto Oggiaro. Stava camminando, di pomeriggio, da solo per andare da un suo amico. Lo ferma una pattuglia. Era Pasqua, appena dopo il Covid. Cosa ci fai qui? gli dicono. E lui sto camminando. E dove vai?. Ma perché mi ha fermato?. Ci hanno detto che stanno rubando delle autoradio. Una delle battaglie che facciamo con la nostra associazione Mamme per la pelle è quella di educare le forze dell'ordine per esempio a chiedere i documenti con gentilezza, non il permesso di soggiorno e magari anche in modo aggressivo».

Come nasce l'associazione «Mamme per la pelle»?

«Mamme per la pelle nasce dopo un post su Facebook. Succede che mio figlio era stato insultato per due volte sull'autobus da persone adulte. Aveva 13 anni, stava andando al calcio. Scrissi un post, pensavo lo leggessero solo 4 amici e invece diventò virale. Da lì mi sono arrivati centinaia di messaggi da mamme che vivevano la mia stessa preoccupazione per i figli adottati o biologici di un'altra pelle. Mi sono sentita come investita del dovere di aprire un'associazione che facesse rete in tutta Italia tra tutte queste mamme. Ora siamo migliaia. Facciamo cose concrete, quindi aiuto psicologico e legale gratuito a chi subisce atti di razzismo, andiamo nelle scuole, insomma siamo attive quando accadono delle cose, abbiamo realizzato il Manifesto del calcio, e anche il primo corso alle Forze dell'ordine un anno fa».

Di cosa si tratta?

«È un corso pilota che ha messo insieme ragazzi di diverse origini tra i 16 e i 25 anni con poliziotti e carabinieri, tre giorni di lezioni, poi gli abbiamo detto parlatevi, perché parlate la stessa lingua, ascoltate la stessa musica, mangiate la stesa pizza, lo stesso sushi ma con la divisa e con la pelle nera spesso non vi capite. Ed è stata una cosa bellissima. Ora ho studiato un metodo per portarlo a più di ventimila tra poliziotti e ragazzi. La Lamorgese lo aveva accettato ma poi è caduto il governo. Adesso mi piacerebbe incontrare il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per presentarglielo. Penso che come donna e madre possa capirne l'importanza».

Di cosa si tratta?

«È una app, si chiama 4 passi insieme, formazione digitale interattiva che poi finirebbe con incontri. Le cose possono cambiare se non ci accusiamo, se non si ha paura, se non puntiamo il dito, se ci conosciamo. E io ne ho avuto la riprova».

Questo è il tema di «Coprimi le spalle», il suo secondo libro. Nel primo, «I miei figli spiegati ad un razzista» racconta invece un po' la sua storia...

«... e quella dei miei figli. Ma soprattutto quello che loro mi hanno insegnato».

Cosa, soprattutto?

«Le racconto questo. Io e mio marito abbiamo deciso di adottare Fabien e dopo sua sorella Amélie nata in Etiopia. Siamo molto amanti dell'Africa, l'abbiamo girata con grande rispetto, scalzi, da viaggiatori non da turisti. Abbiamo scelto, quindi l'Africa. In tanti mi chiedono perché? La risposta è che non immaginavo, pensavo che in 15 anni l'Italia si sarebbe evoluta come la Francia o come il Belgio. Non mi sono posta proprio il problema. Forse ingenuamente. Ma la verità è che non ci sono dei corsi che ti preparano a questo. I corsi adottivi ti insegnano del dolore del bambino, del trauma della perdita dell'orfano, ma nessuno ci ha mai detto: preparatevi. Cosa che facciamo noi adesso come associazione. Ci siano imposti di fare dei corsi di destrutturazione del razzismo ai genitori adottivi. Che vanno lì, con il cuore gonfio d'amore ma assolutamente impreparati a quello che potrà accadere poi ai loro figli nella società. Quindi dobbiamo destrutturare il razzismo anche dentro di noi. Nel senso più profondo della parola. Se vogliamo, anche io ero razzista, all'inizio».

In che senso?

«Mio figlio doveva essere il più bello, vestito bene, il più educato, il più bravo a scuola perché volevo che nessuno mi dicesse niente. E questa che cos'è se non una forma di razzismo? Quando lui voleva vestirsi come tutti i suoi amici, quindi come uno scappato di casa, io gli dicevo di mettersi la camicia e questa è una forma di razzismo enorme. Anche io ho fatto un percorso aiutata da altri neri, quindi ho fortemente voluto questi corsi per genitori che stanno affrontando l'adozione. L'amore non basta. Perché quando un ragazzo, una ragazza arrivano a casa e ti raccontano che sono stati aggrediti verbalmente, la prima cosa che ti viene da fare è sminuire. Invece a loro si radica dentro. Quando vivi in una famiglia di bianchi vuoi essere un bianco. Vuoi appartenere a quel mondo, nel senso più profondo. Ti comporti come un bianco vuole che si comporti un nero. Perfetto, il più bravo, quello che eccelle, uno che non si ribella. Ne conosco tanti che vivono così. O hanno genitori che li sbiancano, li trattano come fossero bianchi. E lo dicono. Per me mio figlio è bianco e io dico no, tuo figlio è nero, devi riconoscere la sua identità, la sua etnia, e fargliela amare. Perché altrimenti da grande avrà una confusione di personalità a volte è devastante. Hanno davvero bisogno di qualcuno che li capisca, che gli faccia leggere libri, che sappia parlare di antirazzismo vero».

Esiste un antirazzismo falso?

«La vera cultura antirazzista è molto diversa dal dire no al razzismo. E questo lo dirò nel mio quarto libro che ho già in mente...

».

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