Letteratura

Da una penna rubata a Hell's Kitchen all'insediamento di Elsin a Mosca - la vita di un corrispondente

Enrico Franceschini, storico corrispondente di La Repubblica, racconta nella sua autobiografia la realtà del lavoro del corrispondente (di guerra) e l'evoluzione che lui ha vissuto, in pari passo a quella del mondo del giornalismo

Da una penna rubata a Hell's Kitchen all'insediamento di Elsin a Mosca - la vita di un corrispondente

Non si tratta proprio di girare il mondo gratis, quanto piuttosto di viverlo, comprenderlo e saperlo raccontare mettendo tutto in nota spese. Però questo (“Come girare il mondo gratis”) è il titolo che è stato ritenuto più adatto a sintetizzare l’ultimo libro, una autobiografia di Enrico Franceschini, storico corrispondente per la Repubblica che in 287 pagine ti fa ridere, piangere, arrabbiare, mentre raccoglie memorie, aneddoti e scenari geopolitici trascritti e spediti in redazione dal telex al web.

Il lavoro del corrispondente è fatto di colpi di fortuna e di audacia, perseveranza e, nel caso di Franceschini, quel tanto di disincanto che serve prima a raccontare di essersi nascosti, dove possibile, per schivare i colpi di mitragliatrice dei guerriglieri del Fronte Nazionale di Liberazione del Salvador e poi ad accompagnare Fellini e la moglie al taxi dopo una festa nella Trump Tower.

La guerra civile nel vicino Salvador si inasprisce e da Guatemala City la Quotidiani Associati ci spedisce lì. Il Salvador non è molto diverso dal Guatemala: città coloniali, vegetazione tropicale, umidità spaventosa. In mancanza di un golpe e della legge marziale che di solito lo accompagna, è tuttavia più semplice imbattersi nei guerriglieri, che compiono raid nei dintorni della capitale con spregiudicato coraggio. Appartengono al Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí: Gianfranco mi fotografa nascosto fra i cespugli con il taccuino in mano, accanto ai compañeros con il fucile spianato. Siamo in loro compagnia in un villaggio quando le forze speciali dell’esercito conducono un attacco a sorpresa: i guerriglieri spariscono in un attimo, i contadini si rifugiano nelle loro capanne, il mio fotografo e io facciamo altrettanto, nascondendoci ventre a terra sotto il tavolo di una baracca. Mentre i militari setacciano l’abitato casa per casa infilando il mitra dalla porta, faccio cenno ai bambini che condividono con me il povero rifugio di non piangere per non attirare l’attenzione dei soldati. Più tardi, sulla strada per la capitale San Salvador, a un posto di blocco dell’esercito incontriamo di nuovo alcuni dei guerriglieri con i quali avevamo trascorso la giornata: morti ammazzati, dentro un camion pieno di cadaveri. È il mio primo servizio da «corrispondente di guerra», una definizione con qualcosa di epico, in cui stento a ritrovarmi.

In questo libro che va giù davvero in fretta, si sfogliano 40 anni di carriera raccontati con l’innocenza di un Forrest Gump, dalla scrittura svelta e ironica, che tenta di fare credere a chi legge di essere capitato di fronte ai grandi della terra perché un bizzarro gioco dei quattro cantoni ce lo aveva messo, mentre lui voleva solo parlare di basket a Bologna.

Naturalmente non è andata così e non è così che si costruisce una carriera di corrispondente di guerra come la sua, passata dai fronti più pericolosi del Sud America e della striscia di Gaza, ai disastri come il drammatico terremoto di città del Messico per poi trascorrere i gelidi inverni dei poeti russi in un paese in cerca della trasparenza della perestrojka di Mikhail Gorbaciov che faceva i conti con la fine del comunismo e il successivo passaggio di consegne da Elsin a Putin.

L’edificio in cui vivrò appartiene all’Updk, il dipartimento del ministero degli Esteri sovietico che si occupa degli stranieri autorizzati a risiedere in Russia: ci abitano dunque soltanto giornalisti, diplomatici, uomini d’affari. L’Updk fornisce abitazioni, uffici e personale: compresa la cameriera che faceva le pulizie a casa di Ezio e le farà a me, l’autista Serioza che mi è venuto a prendere in aeroporto, gli interpreti. Un modo di tenerci sotto controllo. Tutta questa gente deve stilare rapporti settimanali su di noi: chi abbiamo visto, dove siamo stati, cosa diciamo. Un colossale apparato spionistico, a cui si aggiungono probabilmente le cimici-spia nei telefoni o tra le pareti di casa. Ma i tempi sono cambiati. Il comunismo non è più così rigido. La paura che lo faceva funzionare all’epoca di Stalin è finita da un pezzo, rimpiazzata da una leggera incertezza. La cameriera, l’autista, l’interprete, fanno rapporto ai loro superiori, ma giusto per scrivere qualcosa: ormai non sono più vere spie, mi spiega Ezio (Ezio Mauro ndr), non gliene frega niente di spifferare dove andiamo e chi incontriamo. La perestrojka di Gorbaciov ha liberalizzato il sistema. Ma a pianterreno, in una guardiola, c’è 24 ore su 24 un poliziotto che controlla chi entra e chi esce: soprattutto per evitare che cittadini russi frequentino stranieri e magari possano mettersi al loro servizio, diventare spie.

Gli anni della giovinezza, guardano ad un’America che sembra un film negli anni di Reagan e dei sogni che portano Bruce Willis dal servire caffè al baretto sotto casa di Franceschini, a Hollywood e quest’ultimo da spedire articoletti di sport in buste affrancate all’Italia, ad un contratto con La Repubblica. C’è sacrificio, c’è tanta fortuna e l’ingrediente che fa decollare una carriera: trovarsi nel posto giusto al momento giusto senza mai mollare.

Da una biro rubata al market di Hell’s Kitchen a poco più di 20 anni, perché senza un soldo, a quella “regalata” al poliziotto russo per passare la dogana cambia un mondo e cambia il giornalismo. Negli strumenti ma non nella passione che spinge ad imparare a decodificare il linguaggio di culture lontane e in ebollizione, incastrando la costante ricerca, sul campo, di una notizia con il fuso orario della redazione e della concorrenza.

Noi corrispondenti viaggiamo come trottole da un capo all’altro dell’impero, da Vilnius a Riga, da Riga a Tallin, da Tallin a Tbilisi, da Tbilisi a Erevan, da Erevan a Samarcanda, da Samarcanda a Leningrado, da Leningrado alla Siberia, per descrivere il disfacimento dell’Urss. Ovunque scoppia un focolaio di rivolta, seguito da un sussulto di repressione dell’Armata Rossa, con sangue, morti, barricate, arriva il nostro gruppo di giornalisti italiani e quello più ampio dei giornalisti stranieri.

Le regole del gioco, i no che non si possono dire quando descrivere cosa succede davvero a certe latitudini è più forte del desiderio di tornare a casa e il brivido di uno scoop o un buco dato all’avversario fanno scorrere l’adrenalina che porta fin dentro ai fortini occupati dai ribelli o ai bunker dei capi in fuga.

Israele manda i carri armati fino a Ramallah, capitale provvisoria dell’Autonomia Palestinese, cioè dei territori in cui i palestinesi si autogovernano, come previsto dagli accordi di pace mai portati a termine. Vengo richiamato da una breve vacanza in Italia: è la seconda volta che succede nella mia carriera, la prima è stata per il golpe d’agosto contro Gorbaciov. Al giornale si pensa che l’attacco israeliano andrà fino in fondo, che Arafat verrà arrestato o addirittura ucciso. Durante il lungo assedio, provo a intervistarlo con l’aiuto di uno stringer palestinese, come si chiamano in gergo i collaboratori locali. «Devi venire a Ramallah e aspettare che Arafat ti convochi», mi dice lo stringer. Nella città presidiata dai carri armati israeliani vige il coprifuoco dal tramonto all’alba. Prendo una stanza in un piccolo albergo, di cui sono l’unico cliente. E aspetto. Un giorno. Due giorni. Tre. Cinque. Una settimana. Non ricevo più i giornali. Mi sento tagliato fuori dal mondo, anch’io prigioniero dell’assedio israeliano. Inganno il tempo buttando giù la prima bozza di un romanzo a cui penso da un po’. Finché una notte alle tre arriva la telefonata del mio collaboratore palestinese: «Il presidente ti attende»."

C’è anche Londra e la storia recente della Brexit e della monarchia da rotocalchi, ma soprattutto ci sono gli strumenti del mestiere per chi oggi sogna una carriera simile perché, soprattutto all’estero, i giornali che ancora comprendono il valore di un corrispondente in loco e ci investono ci sono, mentre sono rarissimi e lodevoli i pochi rimasti in Italia, dove si legge poco, si scopiazza tanto e si inventa troppo.

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