Letteratura

L'illusione dell'"umano, poco umano"

Crippa e Girgenti propongono nove "esercizi spirituali" per resistere all'Intelligenza artificiale

L'illusione dell'"umano, poco umano"

Sembra che nel 2050, ovvero fra un quarto di secolo all'incirca, l'età media dell'essere umano supererà facilmente i cento anni. Amorevolmente, la rivista Nature Communication ci avverte tuttavia che il limite massimo posto dalla biologia fa sì che oltre i centocinquanta anni ancora non si possa andare, anche se, come sottolinea un aureo libretto dal titolo Guida (fu)turistica per viaggiatori nel tempo, sempre in quel 2050 mangeremo alimenti fatti in laboratorio, potremo scegliere il corredo genetico dei nostri figli e sarà possibile andare ad abitare su Marte. La sua autrice, Cristina Pozzi, oltre a essere un'imprenditrice è nota anche come advisor e angel investor, qualifiche di cui comprendo l'inglese, anche se me ne sfugge il senso. Come che sia, spero di morire prima.

Sembra altresì che questo futuro prossimo venturo sarà sempre più all'insegna dell'intelligenza artificiale, o Ai che dir si voglia, di cui Elon Musk, miliardario, influencer e opinion leader, è ormai da tempo profeta nonché munifico supporter. Nel mondo globale da lui prefigurato, sostituiremo l'amicizia con un avatar, parleremo con sequenze numeriche, ameremo partner virtuali, virtuali saranno le nostre amicizie e, va da sé, andremo su Marte. A fare cosa, non è chiaro, ma, come diceva quel personaggio della Beat Generation, «l'importante è andare, non importa dove». Non contate su di me, vien voglia di dire...

Le notizie di cui sopra le ho attinte da un libro tanto strano quanto interessante che si intitola Umano, poco umano (Piemme editore, pagg. 240, euro 18,50), scritto da Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti, rispettivamente un manager dell'informazione e della comunicazione televisiva (Mediaset, nella fattispecie) e un docente di Storia della filosofia antica (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano). Il suo sottotitolo, «Esercizi spirituali contro l'intelligenza artificiale» ne chiarisce ulteriormente il senso, ovvero la difesa della nostra interiorità, il rifiuto di ogni sottrazione di facoltà e abilità umane, in favore di strumenti tecnologici. Nove sono gli «esercizi spirituali» che in forma di capitolo scandiscono il volume e Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro, Sant'Agostino, Galeno, Omero, Eraclito, Sant'Ignazio di Loyola sono i maestri chiamati a raccolta per insegnarci come vivere, e quindi amare, giocare, avere cura di sé e degli altri, raccontare ed insegnare, nonché come morire. Già, perché, come notano i suoi autori, sulla scorta del sociologo francese Jean Baudrillard, «quella che vediamo oggi è la cyber vita», ovvero la pretesa di essere immortali: «L'umanità sta mettendo fine alla selezione naturale per prendere la china di un corso artificiale il cui esito sarà un punto oltre il quale non saremo più in grado di riconoscere né l'umano né l'inumano».

Umano, poco umano pone significativamente l'accento sul naturale rispetto all'artificiale, ovvero sulle «qualità irriducibili dell'umano rispetto al tecnologico». Siamo talmente abituati a considerare la tecnica e/o la tecnologia, e in senso lato la scienza, come parte integrante del nostro essere che ci sfugge la sua divinizzazione, ovvero il suo trasformarsi in una sorta di divinità trascendente a cui abbandonarsi in un'ottica tanto cieca quanto consolatoria. È uno strumento la tecnica, si dice più o meno convinti, è neutro in sé, dipende dall'uso che se ne fa... In realtà, come già osservava Martin Heidegger, «la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l'uomo di per sé non è in grado di dominare», un qualcosa che «strappa e sradica l'uomo sempre più dalla terra», via via che la logica del funzionale, della risposta pratica ai bisogni ne sancisce la pura e semplice ragion d'essere. Il grido di allarme e di dolore di Heidegger, quel suo «Solo un dio ci può salvare», non ha a che fare con un generico deismo, ma si fonda proprio sul richiamo a quell'io profondo, la psyche greca, l'anima dei latini, che è portatore di civiltà, che cerca nel rapporto con la natura il suo punto di equilibrio, che non si crede signore dell'universo proprio perché è consapevole della propria finitezza...

Naturalmente, Crippa e Girgenti sono consapevoli che «ogni progresso tecnologico è una tappa del farsi della natura umana», ma nel caso dell'intelligenza artificiale il punto non è un'ulteriore macchina, l'automobile che sostituisce il cavallo come mezzo di locomozione... È una svolta tecnologica tanto rivoluzionaria quanto imprevedibile perché il rischio è uno smarrimento e un appiattimento dell'intelligenza umana a petto di quella artificiale e quindi il suo stravolgimento. Già lo si vede nelle app con cui «caricando qualche immagine fotografica di una persona, si ha la possibilità di produrre nuove immagini sintetiche, facendo fare al soggetto qualsiasi cosa». E ancora: «Le immagini prevalgono sul testo. La verità non è un requisito, e tanto meno la realtà. Non è ancora chiaro che cosa tutto questo produca nelle psicologie profonde degli individui, ma qualcosa sta succedendo dentro di noi».

Quello che sembra passare sotto silenzio è che la tecnica contemporanea, come ha notato con la consueta lucidità Massimo Cacciari, «tende per sua natura a rendere artificiale ogni aspetto della nostra vita. Artificiale anche ciò di cui questa vita si alimenta». Siamo già nel pieno di una neo-natura standardizzata a livello globale che domina tutte le forme della nostra esistenza. Ci trastulliamo con l'idea che il mangiare cibo artificiale risolverà il problema della fame nel mondo, e così facendo spostiamo sempre più l'asticella di un mondo senza limiti lì dove è proprio il senso del limite, di una crescita smisurata rispetto a uno spazio delimitato, che dovrebbe preoccuparci. Allo stesso mondo, manipoliamo la nostra stessa intelligenza illudendoci che nessun danno ne possa scaturire, l'ottimismo dell'imbecillità che è il naturale proseguimento di quel positivismo ottocentesco così ben descritto dal Flaubert di L'educazione sentimentale, il farmacista Homais, con le sue fiale e i suoi clisteri, cretino cognitivo e insieme cretino tout court.

Dicevamo all'inizio che Umano, poco umano è un libro strano e interessante, ma sarebbe meglio dire che è un libro coraggioso, nel suo andare controcorrente, nel suo rifarsi a un pensiero classico quando la vulgata comune ci vuole smaterializzati, «utenti cittadini di un villaggio digitale globale» in cui «le reti social influenzano e anche determinano l'andamento delle vicende politiche, sociali ed economiche delle diverse comunità fino alle vite dei singoli individui». E hanno ragione Crippa e Girgenti ad osservare che la posta in gioco non riguarda il cosiddetto sovranismo nazionale, agitato come una testa di turco dai fautori di un ordine mondiale dove il cittadino diventa merce di un mercato globale, quanto quel fondamentale sovranismo che è il sovranismo della mente, il pericolo di una sostituzione tecnica, non etnica, ovvero «la progressiva sottrazione di facoltà e abilità dell'uomo in favore di apparati tecnologici, algoritmi e reti neurali».

Umano, poco umano è una sorta di libro resistenziale per chi come me non è un frequentatore di social, non possiede smartphone, usa il computer come una macchina per scrivere e, per di più, abitualmente scrive a mano: «La scrittura digitale nasconde i sentimenti e ci trasporta in un mondo fatto di schermi, e quando il mondo è fatto di schermi non si riconosce più l'identità dell'Altro». È un libro che si rivolge agli individui perché, come ricordava Ernst Jünger sulla scorta di Eraclito, «uno vale più di diecimila» (altro che uno vale uno...) e «l'individuo, il singolo, è il punto nevralgico, non la massa».

Ed è in fondo il compendio necessario a quella figura sempre jungeriana dell'Anarca che, forte del suo mondo interiore, del mondo delle sue letture, può essere sovrano anche sulla tecnica, servirsene, ma non esserne schiavo.

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