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Un lungo volo infernale dentro l'Afghanistan

"Il gomito del diavolo" di Paolo Riccò racconta i momenti più duri della lotta contro i talebani

Un lungo volo infernale dentro l'Afghanistan

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Montagne, polvere, una strada ad anello, la Ring Road, che è un inferno, di cecchini, di agguati, di ordigni improvvisati. E poi sentieri impervi, temperature assurde sia nel freddo che nel caldo. E una popolazione così abituata alla guerra, così stuprata dalla guerra, che fatica a distinguere chi è lì per aiutarla da chi vuole opprimerla con una dittatura fatta di religiosità oscurantista, commercio di droga ed armi. E in mezzo, a fare da bersaglio, ad uccidere per fare il proprio dovere o salvarsi la vita, i soldati del contingente internazionale, tra cui gli Italiani.

Questo troverete nel libro del Generale Paolo Riccò, scritto con l'aiuto del giornalista Meo Ponte e appena pubblicato da Longanesi: Il gomito del diavolo (pagg. 280, euro 18,60).

Paolo Riccò (classe 1963) ha attraversato, da protagonista, un lungo pezzo di storia dell'Esercito italiano, sin da quando nel 1993 fu coinvolto, in prima persona, nella battaglia del Pastificio, a Mogadiscio, al comando della XV compagnia di paracadutisti «Diavoli Neri». Ha partecipato anche all'impegno del nostro contingente in Afghanistan in diversi ruoli, dal comando diretto di un elicottero d'attacco Mangusta, sino al coordinamento e all'organizzazione di operazioni complesse ed interforze. Il suo racconto spazia da una delle azioni più pericolose mai compiute per arginare i talebani, quella al «Gomito del diavolo» che dà il titolo al volume, a momenti grandi e piccoli dell'esperienza vissuta dagli italiani, e personalmente dal generale, all'interno dell'Isaf.

Saggi sul conflitto in Afghanistan ne sono stati pubblicati tanti, e anche alcuni romanzi decisamente interessanti - come Green on Blue di Elliot Ackerman (in Italia per Longanesi con il titolo: Prima che torni la pioggia), ma in questo caso siamo di fronte ad una narrazione che mette in luce tutto il versante umano del conflitto. C'è la città di Kabul dove Riccò, nel 2006, si muove con una banalissima Toyota Corolla bianca, senza alcuna blindatura. Tutti lo prendono per matto ma così, inosservato, gli capita di sfiorare la vita degli afghani. Ci sono i locali dove di nascosto si va a bere alcolici, a cercare di vivere. C'è l'interprete Rashid che addirittura rimpiange l'occupazione sovietica, se confrontata con il regime dei talebani. Ci sono le forze occidentali costrette a muoversi in un contesto dove ogni cosa può essere un'insidia e dove è difficilissimo far breccia nel cuore della popolazione.

Poi c'è Herat, nel 2010, al comando della «Task Force Fenice», la componente ad ala rotante delle forze italiane. Ci sono i decolli a pieno carico e con temperature al limite operativo dei mezzi, dei Mangusta, gli elicotteri d'attacco, la cui presenza o assenza potevano significare il distinguo tra la vita e la morte per civili o militari sotto attacco da parte dei Talebani. Ci sono i contractor americani che, magari, hanno pilotato nella guerra del Vietnam, ma continuano a far volare vecchi velivoli scassati perché senza guerra non possono più vivere.

E poi c'è la terza missione del 2013, quella che porta dritta dritta al «Gomito del Diavolo», il tratto più terribile della famigerata Ring Road. Senza questa strada non si controlla l'Afghanistan, ma per controllarla si paga un prezzo altissimo. E in questo caso a doverlo pagare sono le forze afghane del generale Muhayuddin Gori (che cadrà in un incidente aereo nel 2016). Lo scontro, senza quartiere, può essere sostenuto solo grazie all'appoggio aereo coordinato dagli italiani.

Riccò come è nel suo stile - per rendersene conto basta leggere I Diavoli Neri, il libro con cui ha raccontato la missione a Mogadiscio, nel 1993 - inserisce nella narrazione anche la parte scomoda e non retorica della vicenda: la permeabilità delle forze afghane alle spie talebane, le incomprensioni interne al contingente internazionale, gli errori di gestione... Ne esce un quadro dolente che rende più comprensibile il ritorno dei talebani. E l'amarezza di chi per impedirlo ha fatto sempre il suo dovere, forse anche di più, e ha perso colleghi e amici nel farlo. Di qualunque nazionalità fossero. L'elenco dei caduti italiani a fine volume, basta da solo a dare i brividi...

le vittime afghane dei talebani, soprattutto dopo l'esodo degli occidentali, non riusciremo nemmeno mai a contarle.

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