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Manette al giudice Chiedeva favori ai boss

Maxi inchiesta tra Milano e la Calabria. Vincenzo Giglio, "campione" anti mafia, chiamava il capoclan "eccellenza". E si faceva raccomandare la moglie. Membro di Magistratura democratica, noto per i sequestri alle 'ndrine

Manette al giudice Chiedeva favori ai boss

Milano - «Sono profondamente convinto che le intercettazioni siano un mezzo indispensabile per la ricerca delle prove penali»: così il giudice Vincenzo Giglio scriveva il 30 giugno dell’anno scorso al quotidiano L’Ora della Calabria, per spiegare che lui non c’entrava niente con le brutte cose ce finivano in quelle ore sui giornali locali. Spiegava di non avere niente a che fare con i boss, di non avere organizzato cene con loro, di non avere mai concesso favori a nessuno.

Peccato che proprio le intercettazioni che in quelle ore i suoi colleghi della procura di Milano facevano sul suo telefono, raccontavano tutt’altra verità, ed è la verità che ieri mattina porta Giglio in cella: la toga calabrese, figura di spicco di Magistratura democratica, in prima fila nelle battaglie per la legalità e nei convegni di diritto, era la talpa della ’ndrangheta nel tribunale di Reggio. Ai boss Lampada, con cui si intratteneva al telefono con mille salamelecchi («Eccellenza carissimo», «Giulio bello») Giglio spifferava ripetutamente i segreti delle indagini. In cambio, chiedeva e otteneva la raccomandazione per sua moglie, «una cui piace lavorare molto». Intermediario, una figura di spicco della politica calabrese: Francesco Morelli, consigliere regionale Pdl vicino al sindaco di Roma Gianni Alemanno, che ieri finisce in cella per associazione mafiosa.

L’inchiesta congiunta delle procure di Milano e di Reggio sfocia nell’ordinanza di custodia (804 pagine) firmata dal gip milanese Giuseppe Gennari, che racconta di una penetrazione dei clan nelle istituzioni e nella politica ancora più devastante di quanto avevano testimoniato le retate dell’estate scorsa. Asservito ai clan, ancora più di Giglio, c’è un altro magistrato, il gip di Palmi Giancarlo Giusti, che in cambio otteneva viaggi a Milano dove passava le notti con splendide prostitute slovacche, kazake, russe, ceche, nell’hotel Brun vicino a San Siro: ma per il giudice Giusti (uno che al telefono con i Lampada si vantava «sono una tomba io, dovevo fare il mafioso, non il giudice»), non viene chiesto l’arresto. Una talpa c’era sicuramente anche a Milano, dove l’avvocato Vincenzo Minasi anche lui finito in cella) consegnava ai clan appunti di precisione millimetrica, su carta intestata della Procura e della Questura, sulle indagini top secret a loro carico. Una talpa, ipotizza l’ordinanza, anche nel tribunale di Catanzaro. Talpe nella Guardia di finanza, dove viene arrestato un sottufficiale in servizio a Milano. Contatti nei servizi segreti («Come fa Giglio a conoscere il capocentro Aisi e a farsi ricevere?», si chiede l’ordinanza). Contatti persino in Vaticano, dove il boss Lampada ottiene di far battezzare suo figlio e dove viene nominato da monsignor Bertone «cavaliere di San Silvestro».

E poi, ovviamente, c’è la politica, dove l’elenco delle sponde cercate e spesso trovate dalla ’ndrangheta occupa interi capoversi. «Facendo confluire preferenze su candidati a loro vicini, tra i quali Sarra Alberto, per le regionali in Calabria dell’aprile 2005, attualmente sottosegretario alle Riforme; Alati Adolfo nelle elezioni del comune di Reggio e della Regione Calabria: Oliviero Antonio alle elezioni per il comune di Milano del maggio 2006; Morelli Francesco alle elezioni regionali in Calabria del marzo 2010; Zobbi Tarcisio elezioni politiche dell’aprile 2008, consigliere della provincia di Reggio Emilia; Vagliati Armando nelle elezioni alla provincia di Milano del giugno 2009, attualmente consigliere regionale: Fedele Luigi alle elezioni per la Regione Calabria del maggio 2010». «Sono stato a cena con Formigoni, c’era anche Mario Mauro», si vanta uno degli arrestati: «millanterie», replica in serata Formigoni.

Sono contatti di cui l’ordinanza sottolinea tutta la pericolosità. Ma i toni più allarmati sono quelli che il provvedimento di Gennari dedica alle complicità trovate dai clan negli apparati dello Stato ed in particolare dentro la magistratura.

Anche se poi concede una nota di colore: quando il giudice Giusti, quello che si faceva pagare dai clan le notti d’amore con Jana, Olga e le altre, viene a sapere che la sua richiesta di promozione è stata bocciata, chiama una parente e si mette a piangere come un bambino. «Ci perdo seicento euro al mese!»

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