Letteratura

Marie Nimier, nel nome del padre

Papà Roger era ingombrante quanto assente. E per la figlia scriverne è un'amorosa vendetta

Marie Nimier, nel nome del padre

Quando Roger Nimier morì, a 36 anni, nel 1962, Marie, sua figlia, ne aveva appena cinque e non è azzardato dire che, in quella sua prima infanzia, più che una presenza quel padre fosse un'assenza: era poco in casa, quando c'era non lo era nelle vesti di marito, tanto meno di genitore, ma in quanto appendice del suo lavoro di scrittore, consulente editoriale, giornalista, e non andava disturbato. Non è un caso che, all'asilo, Marie si fosse rivelata la più brava, tanto da meritarsi un premio, al «gioco del silenzio», l'espediente che le maestre impongono come una sorta di metodo pedagogico ai bambini: fare il meno rumore possibile in modo da poter toccare le corde più intime della propria infanzia... Era insomma una pratica che anche in casa non le doveva essere estranea, e che però non risolveva il problema, caso mai lo acuiva: il silenzio e la solitudine vanno bene insieme a patto di essere una decisione autonoma, non un obbligo, tanto meno un'arma di difesa.

La regina del silenzio (Edizioni Clichy, pagg. 191, euro 19,50, traduzione di Fabrizio Di Majo) è, a quarant'anni di distanza, il modo che Marie Nimier ha scelto per regolare i conti con quel duplice sentimento di assenza dalla vita, quella del padre e la propria, che nel tempo non aveva fatto che acuirsi, sempre più sbiadendo i contorni infantili del ricordo paterno da un lato, sempre più accumulando rimorsi e rampogne intorno a un amore che non aveva fatto in tempo a rivelarsi come tale e che aveva finito con l'identificarsi quasi nel suo contrario, se non un odio, una voglia di riappropriarsi della propria voce, delle proprie ragioni. Se si vuole, la scrittura come l'unica via possibile di riconciliazione, l'unico modo per riconoscersi.

La regina del silenzio è un bel libro e per chi l'ha scritto un libro doloroso, salutato del resto alla sua uscita in patria con il Prix Médicis, uno dei riconoscimenti letterari francesi più importanti: curiosamente, Roger Nimier in vita di premi non ne ebbe nemmeno uno, e sotto questo profilo si può dire che l'allieva ha superato il maestro, perché della generazione venuta alla ribalta nel secondo dopoguerra Nimier fu un punto di riferimento, il capofila di quella corrente degli «ussari» su cui è stato versato molto inchiostro, ma anche tanta incomprensione. Oltre che più volte premiata (Sirene, il suo libro d'esordio, ebbe nel 1985 il Prix de l'Académie française), Marie Nimier è Cavaliere delle Arti e delle Lettere, insegnante di flauto traverso al Conservatorio di Parigi, sceneggiatrice e autrice di testi musicali e dunque una figura ben inserita nel milieu intellettuale transalpino. Traspare tuttavia dal libro un senso di insicurezza e di fragilità, di insoddisfazione anche, che cozza in fondo con il suo essere una scrittrice tradotta nel mondo. In questo, va detto, c'è una sorta di imprinting paterno, perché anche Nimier era dubbioso su sé stesso e sul proprio talento, anche se in maniera più spavalda e più rissosa della figlia, con un forte gusto per le polemiche e le provocazioni, anche lui ai ferri corti con la vita, anche se la morte non gli diede il tempo di uscirne vittorioso o di pentirsene. Così come c'è una sorta di imprinting alla rovescia nell'incapacità che Marie Nimier ha nel guidare, quattro volte bocciata all'esame per la patente: Nimier morì in un incidente di macchina ed era un patito della velocità. E infine, c'è in lei come nel padre quella pulsione verso il suicidio, letteraria, ma non solo nel secondo, a giudicare da un vago ricordo infantile corroborato da un'ammissione della madre, fortunatamente fallita nella prima, che illumina sui legami inconsci eppure di sangue più di mille sedute psicoanalitiche.

Nasce anche da qui la fobia di Marie Nimier per le lame di rasoio in particolare, le armi da taglio in genere, laddove il primo romanzo di Roger si intitolava Les épées, Le spade: «Ho sempre pensato che il mondo nasconda un gran numero di spade, tutte rivolte verso un petto. Naturalmente, con un po' di destrezza e di prudenza si evita facilmente ogni pericolo. Ma c'è anche chi, senza preoccuparsi delle conseguenze, non può staccare gli occhi da quelle spade che fremono».

In La regina del silenzio, la scrittura può essere una forma di catarsi. «Scrivere per risvegliare, scrivere per addormentare, scrivere con gli occhi chiusi, sono espressioni che tornano spesso quando mi si chiede di parlare del mio lavoro». La definisce come «l'unico modo di sopravvivere alla doppia natura di quel padre fantasma. Né davvero lì quando era presente, né davvero assente quando ci ha lasciati. Un essere eccezionale, raccontano i suoi amici, e nei loro occhi, quando parlano di quell'uomo che hanno amato, non leggo la tristezza, ma la luce. Mi chiedo se un giorno sarò capace di condividere quella luce».

Qui si inserisce un altro elemento interessante nel complicato rapporto che lega una figlia a un padre. Il nome Nimier continua a essere ingombrante nel mondo letterario francese, e lo è ancor più quando se ne ripercorrono le orme. Marie, che da ragazza continuava a firmarsi Nier, ovvero «negare», ha 26 anni quando decide di mettere il suo vero nome sulla copertina di un libro, il suo primo libro: è la stessa età di quando il padre ha scritto Les enfants tristes, il suo quarto e penultimo romanzo: due anni dopo, con Histoire d'un amour, la sua vena narrativa si interrompe, un quinquennio al galoppo e di impronta autobiografica a cui fanno seguito dieci anni di silenzio. Il ritorno alla narrativa coinciderà singolarmente con la sua morte: D'Artagnan amoureux uscirà postumo. Di là da quelle che possono essere le costanti della giovinezza in quanto tale, la noia e l'insofferenza, il gusto per le grandi imprese e un senso di vuoto, ogni generazione che vi si trova immersa la coniuga al ritmo del proprio tempo. Quella di Roger Nimier era figlia della guerra e della occupazione, un senso di vergogna, una voglia di rivalsa e insieme di rifiuto verso il cosiddetto «mondo dei grandi». Marie Nimier è nata nell'epoca del boom, bambina quando c'è la contestazione del maggio francese, adolescente in quei Settanta molto ideologici e molto settari. Non si è lontani dal vero se si dice che alla figura del padre assente e però ancora circondato dall'ammirazione degli amici, così come dal rispetto dei nemici, il rispetto che si deve a chi è in grado di reagire, ha un contropotere con cui farsi valere, si è venuta a sostituire quella di un padre di cui vergognarsi. Non tanto e non solo per questioni di incompatibilità, «il suo modo di parlare delle donne nei suoi libri, il suo amore per le armi, le uniformi e le auto da corsa», ma, più concretamente, per qualcosa che aveva a che fare con l'ideologia, con la politica. «Apparteneva decisamente a quel passato di cui noi volevamo fare tabula rasa, e quando nelle manifestazioni gridavamo Poliziotti, fascisti, assassini io pregavo perché un bel giorno non si scoprisse da dove venivo (...). Cosa avrei risposto se si fosse venuto a sapere che l'ignobile Louis Ferdinand, l'autore di Bagatelles pour un massacre, mi aveva fatto saltare sulle sue ginocchia e, peggio ancora, che conservavo delle mie visite a Meudon un bellissimo ricordo?». Un corto circuito, insomma, paradossale se si pensa che il merito maggiore di Nimier, culturalmente ed editorialmente parlando, è stato quello di aver riportato alla luce, e che luce, quel Céline altrimenti destinato a essere soltanto un fantasma e insieme un'abiezione...

Come tutte le mitologie, quella intorno alla figura di Roger Nimier è ben spiegata dalla considerazione che chiudeva un bel film di John Ford, L'uomo che uccise Liberty Valance: «Se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda». Il problema di Marie Nimier è che la realtà, ovvero la verità, resta irraggiungibile, e la leggenda non è di suo gradimento e quindi il suo è un circolo vizioso o una via senza uscite.

E però ciò che la leggenda, proprio nel suo insistervi sopra, ha finito con il soffocare è la giovinezza di Nimier, romanziere già a 23 anni, sposo e padre di un figlio morto in culla a 29, un bruciare le tappe nell'ansia di sbarazzarsi di una condizione anagrafica che è anche una condizione esistenziale, la scommessa di riuscire lì dove di solito tutti perdono: «Uno scrittore sposato non può più scrivere. È condannato alla rovina. Si annoia. Si coprirà di rughe e di tristezza. Morirà a 50 anni di crisi cardiaca (i pensieri)».

A 36 anni si può ancora pensare che il tuo futuro sarà diverso e che un domani chiederai a tua figlia di perdonarti le tue assenze come padre.

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