Arte

Il meglio del Ventennio creava in totale libertà

Il primo a capirlo fu Luigi Bartolini. Poi venne Antonello Trombadori. E dagli Usa Micky Wolfson

Il meglio del Ventennio creava in totale libertà

Nell'arte non c'è fascismo. E nel fascismo non c'è arte. Tra i primi lo aveva capito e scritto (Il polemico, 1959) Luigi Bartolini, con grande lucidità, contro la critica ufficiale: «Ma che Lionello Venturi erri per spirito di parte volendo dimostrare che l'arte italiana sfiorì sotto il fascismo, non è chi non lo veda. L'arte italiana era ferma, prima del fascismo, ad Aristide Sartorio e ad altri brillanti, superficiali cartolinai. Fu durante il fascismo che fiorirono i Carrà, i Soffici, i De Pisis, e Scipione e il suo derivato Mafai, e De Chirico, Menzio, Campigli, Rosai, Manzù, Marini, e molti altri valorosi artisti». Parole profetiche, con una paradossale punta polemica nei confronti del rivale, e sempre prudente e riservato, Morandi: «In quanto a Morandi, egli venne esaltato da Leo Longanesi. Tutti gli altri sperticati esaltatori di Morandi erano fascisti della Direzione generale delle Arti dell'ultrafascista Marino Lazzari, creatura di Bottai (fascista l'Argan, e fascista il Brandi, ecc. ecc.)».

Siamo oggi travolti dalla vastità e quantità dell'offerta. Eppure, c'è ancora molto da fare. Iniziai a capirlo proprio nei primi anni Ottanta, in dialogo con un grande antifascista, Antonello Trombadori, che mi stupiva ogni volta, condividendo con lui e Federico Zeri le pagine d'arte dell'Europeo. Antonello si occupava di ciò che noi ignoravamo, nel percorso della sua vita dagli anni Trenta agli anni Sessanta, salvando ciò che appariva perduto, sul piano della testimonianza critica. Così scoprii Antonio Donghi, Alberto Ziveri, Katy Castellucci, Pasquarosa, Nino Bertoletti, Carlo Socrate, Armando Spadini, Fausto Pirandello, tutti nomi cancellati dalla cosiddetta critica militante, mentre avanzava la ricerca di due donne rivali, Netta Vespignani e Lucia Stefanelli Torossi, affiancate da un curioso - extra moenia - Maurizio Fagiolo dell'Arco e da un esordiente Fabio Benzi.

L'altro che mi fece capire molte cose, negli stessi anni, era, ed è ancora, credo, un collezionista vorace, onnivoro, il console americano a Genova Micky Wolfson, le cui avventure meriterebbero ben più di una mostra, appoggiato agli studi di Anna Maria Damigella, Mario Quesada, Maria Paola Maino, Irene de Guttry. Non capivo bene, pensando all'arte antica, cosa stava facendo. Comprava, prima con l'idea, o l'illusione, di stare in Italia, ed esporre tutto nell'evocativo - ed epocale - Castello Mackenzie, arte e arti decorative e mobilia italiana, tra Liberty (allora non di moda) e Fascismo, tra 1900 e 1945, e non grandi e riconosciuti maestri, ma artisti sconosciuti e disprezzati. E non c'era problema ad esportarli. Così che, finita l'illusione, con un piccolo legato a fianco delle raccolte Frugone, nei musei di Nervi, tutta la sua imponente collezione è finita a Miami, una parte fondamentale della storia artistica d'Italia, demonizzata dagli stolti, considerata paccottiglia. Lui aveva capito. Lo ascoltavo. Andai a Miami, per un convegno sulla Esposizione internazionale di Torino del 1902. Vidi il mondo.

Iniziai a fargli (piccola) concorrenza. Acquistai alcune sculture di Eugenio Baroni, allora sconosciutissimo, presso un altro curioso e perduto amatore di uomini e di statue, Enzo Mazzarella: modelli per il monumento al duca d'Aosta di Torino; inseguii, tracciai gli stessi rivenditori. E molti anni dopo lo invitai a Ferrara. Davanti al San Domenico di Nicolò dell'Arca non ebbe umane reazioni; si abbracciò invece al busto in bronzo di Carlo Delcroix di Giuseppe Santagata, probabilmente lo stesso della Casa del mutilato. Ne avevo visto il gesso a Miami. Gli mancava il bronzo (ora esposto al Mart), lo abbracciava, lo stringeva, lo voleva, arrivò a offrirmi 40mila dollari. Li rifiutai, cinicamente, sadicamente, ero felice della sua invidia, ero felice d'avere in Italia un'opera che avrebbe voluto portare a Miami. Una soddisfazione. E l'avevo trovata, abbandonata, in un desolato mercato di Palermo, lasciandola per mesi, forse anni, in deposito presso la casa editrice Novecento di Domitilla Alessi, altra innamorata. Erano gli inizi di una insaziabile e concorrenziale scoperta della scultura del Novecento, cui dedicai, con Laura Gavioli, una mostra (di sconosciuti) al Castello di Mesola nel 1992.

Resta illuminante l'affermazione stupita di Elena Pontiggia: «Gli anni Trenta non sono un decennio, sono un secolo». Gli anni Venti, a loro volta, sono «Novecento». E gli anni Quaranta sono l'E42, una impresa urbanistica che indica l'ultima idea di Italia che meriti di essere ricordata, insieme alle città di Fondazione, temi sui quali si sono applicati Fulvio Irace, Luca Acquarelli e Maurizio Cecchetti, con un importante e necessario contributo su Edoardo Persico. Aggiungo che gli architetti che hanno creato gli edifici più memorabili del dopoguerra, da Carlo Scarpa a Gio Ponti, a Figini e Pollini, a Carlo Mollino, a Luigi Caccia Dominioni, si sono formati, senza soluzione dì continuità, durante il Fascismo. E per loro vale lo stupore di Pier Paolo Pasolini davanti a Sabaudia (e non gli mancavano borghi memorabili, da Caserta Vecchia a Orte): «Ho scelto Sabaudia come luogo dello spirito per i miei riposi forzati e le mie ansie di lavori futuri, sogni furiosi che mi tengono ancorato al mondo. Eccoci di fronte alla struttura, la forma, il profilo di una città immersa in una specie di luce lagunare, benché intorno ci sia una stupenda macchia mediterranea. Quanto abbiamo riso noi intellettuali, dell'architettura del regime, sulle città come Sabaudia... Eppure adesso questa città la troviamo assolutamente inaspettata... Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, accademico, non trova le sue radici nel regime che l'ha ordinata ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente, ma che non è riuscito a scalfire.

Cioè: è la realtà dell'Italia provinciale, rustica, paleoindustriale che ha prodotto Sabaudia, non il fascismo».

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