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Mendini, il drago dolce del design

La mostra in Triennale racconta vita e idee del geniale progettista milanese

Mendini, il drago dolce del design

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Alessandro Mendini (1931 - 2019) non era un designer o un architetto: era un drago. O forse un ircocervo, o quantomeno, a volerla giocare con rimembranza umanistica, quell'uomo microcosmo che tanto piaceva a Pico della Mirandola. Un genio rinascimentale in salsa divisionista, ma schivo e con in mano i pennarelli colorati dell'irriverenza postmoderna. Per scoprirlo, tratto dopo tratto, oggetto dopo oggetto, niente di meglio della mostra retrospettiva - Io sono un drago - che ha aperto in Triennale in corrispondenza con la Design Week e che durerà sino al 13 ottobre. Una coda coloratissima e bellissima di questa settimana in cui Milano è il centro della creatività di interni mondiale.

Ma chi è questo Mendini/drago? Un creativo milanese che milanese non si sentiva ma da Milano non riusciva a staccarsi, un colto borghese che della borghesia voleva sovvertire tutti i luoghi comuni, un eterno bambino che non era mai uscito dalla wunderkammer della sua infanzia, un adulto che aveva attraversato ogni complessità per ridurla in semplicità.

Una personalità in frammenti? Forse ma frammenti trasformati tutti in un mosaico di bellezza. Frammenti tutti disegnati e ridisegnati uno a uno, in appunti infiniti che sono essi stessi opera d'arte.

È questo che emerge dai 400 lavori raccolti negli spazi della Triennale in collaborazione con la fondazione Cartier e con la curatela di Fulvio Irace. Ma, prima ancora di guardare le opere, andate a sedervi nella sala dove viene proiettato il documentario sulla vita del designer drago. Perché, dopo, tutto quello che vedrete vi apparirà ancora più bello, come se ve l'avessero progettato davanti. Mendini inizia la sua carriera prima di sapere di avere una carriera. Gli oggetti della grande casa di famiglia, a partire da un quadro di Savinio stuzzicano una creatività naturale. Dalla casa non si esce mai, è luogo sacro di libertà e contemporaneamente trappola. Mendini non lo sa ancora ma come dimostra la sua opera più famosa, la Poltrona Proust, questo gusto infantile sarà il suo eterno ritorno, il suo gusto per semplificare e colorare il complesso. Laureatosi in Architettura al Politecnico di Milano nel 1959, il suo primo amore, sì prima ancora del progetto, è la parola. E così nella mostra ci sono le incredibili infinite riviste a cui ha dato anima con quella sua «coda da poeta», la parte meno visibile del drago. Solo qualche nome: Casabella, Modo e Domus. Quello direttore e critico è il Mendini più incendiario, quello delle performance delle sedie che prendono fuoco, della destrutturazione estrema del banale che ci circonda. Poi arrivano gli oggetti meravigliosi, figli di un continuo pensare. Disegnare, riflettere. In questo senso sono una meraviglia i numerosissimi schizzi e appunti appesi su tutte le pareti. Non c'è grande realizzazione, nessun oggetto di lineare semplicità che non abbia covato sulla carta, nel tratto ripetuto, ossessivo. Tutto passa dalla rielaborazione della lezione del puntinismo, del divisionismo e dell'impressionismo. Il disegno precede l'oggetto e l'oggetto dal disegno prende vita. Porta nella terza dimensione l'emozione che il disegno ha coagulato. Oggetti per la gioia, oggetti «che facciano simpatia» come spiegava Mendini stesso.

Bellezza che è stata moltiplicata, messa fuori scala, esaltata nell'idea del fragilisme che è diventato mostra nel 2002, dove il ludico diventa consolazione alla fragilità, e la fragilità una molla per la progettazione collettiva, la contaminazione, uno spazio nuovo dove esistere assieme agli altri creando l'emozione del bello. Il tutto con l'ossimoro della complessità raccontata sempre nel modo più semplice possibile.

E alla fine la mostra è proprio questo, un bellissimo elogio della delicatezza dell'uomo che Mendini ha declinato in forza senza forzature, con l'allegria di un naufragio nei colori. Il drago - con il corpo da architetto, le mani da artigiano e la testa da designer - alla fine non ha mangiato nessuno e bruciato solo i luoghi comuni. Però ha lasciato delle bellissime uova lucenti che continueranno a schiudersi per tantissimo tempo. Ah e quando uscite dalla mostra tenete presente che oltre al Mendini interiore esiste un Mendini che per forza resta esteriore.

Nessun rendering e nessun plastico vi renderà mai conto degli edifici di Mendini, della «Mendiniville» sparpagliata per molte delle città d'Europa.

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