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"Le mie palestre? Un miracolo italiano"

La strategia del fondatore di FitActive: "Ogni cliente è un mondo da esplorare"

"Le mie palestre? Un miracolo italiano"

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Il primo abbonamento sottoscritto sul cofano di un auto, per una palestra di cui esisteva solo un progetto su carta. Inizia così l'avventura di Eduardo Montefusco, oggi CEO e fondatore della FitActive la più grande catena di palestre made in Italy con 100 strutture, 250.000 iscritti e altre 23 in fase di apertura. Numeri importanti da sottolineare, perché raggiunti con passione e quella visione imprenditoriale di cui l'Italia non è seconda a nessuno. «Non ho mai pensato al fine economico», tiene a precisare Montefusco, che dopo 17 anni racconta il suo percorso con lo stesso entusiasmo degli inizi, e che ora, proprio come un'eredità immateriale, trasmette ai ragazzi che forma per lavorare nella sua holding.

Quando ha iniziato nel 2006 era appassionato di fitness?

«Affatto, ho sempre voluto fare il lavoro di mio padre che era un informatico. Quando avevo 7 anni mi sedevo accanto a lui affascinato e lo osservavo lavorare su quei primi computer. Crescendo più che uno sportivo sono diventato una sorta di nerd, che passava tutto il tempo davanti allo schermo, ma proprio quella passione è stata la leva che mi ha portato poi ad una crescita imprenditoriale importante. Ogni cliente che avevo, per me era un mondo da esplorare e oltre alle richieste che mi facevano, guardavo oltre cercando di capire cosa potesse servirgli per farlo crescere, senza nessun compenso aggiunto. Fu così che il proprietario di una palestra con cui avevo lavorato mi propose di diventare socio in un momento di espansione».

Da lì in poi

«Non è andata proprio così, il da lì in poi è spesso una favola che si racconta. La creazione di una struttura imprenditoriale richiede tempo, fatica, innovazione e amore. All'epoca non sapevo nulla di fitness, ma mi sono concentrato sul capire cosa potesse servire ai clienti di una palestra, rendendomi conto che c'era la necessità di seguirli di più nel loro percorso. Creai una sorta di customer care che registrava quante volte un cliente veniva, se si trovava bene, il giorno del suo compleanno per poterlo omaggiare o se c'erano cose che potevamo migliorare. Piccole accortezze che vengono usate tutt'ora, ma che all'epoca erano rivoluzionarie e creavano fidelizzazione».

Quale fu l'investimento iniziale?

«All'epoca 30mila euro. Ne avevo solo 20 e 10 li presi con un fido in banca a scalare. Lavoravo fino alle 17 in azienda e poi andavo nel cantiere di Seveso a fare abbonamenti. Quando la gente veniva trovava solo un capannone e una strada sterrata. Ero io che con un disegno mostravo la struttura e spiegavo come sarebbe stata. Gli abbonamenti venivano firmati sul cofano della mia auto, e da quei primi siamo arrivati a sottoscriverne 9000 in un solo giorno».

Come sono nate le altre strutture?

«Cinque anni dopo la prima, nel 2012, arrivò la seconda e nel 2014 la terza. Dopo quelle iniziai ad avere l'idea del franchising e nel 2015 ne ho aperte altre 5. È una sorta di semina che quando dà i suoi frutti ti ripaga di tutti gli sforzi».

Quali sono stati i momenti difficili?

«Ce ne sono stati molti, ricordo che 2007 per vivere ho venduto la mia auto, poi c'è stato il Covid che ci ha messo alla prova, ma nonostante questo, in quel periodo abbiamo aperto oltre 30 palestre. Nessuno sapeva quando sarebbe finito, ma noi come holding che detiene sempre almeno il 51% abbiamo continuato a fatturare i servizi alle palestre, in modo che anche senza incassi i bilanci erano buoni. Con questi le banche ci hanno finanziato e abbiamo utilizzato quei soldi per aiutare le strutture in difficoltà, e concludere i cantieri ancora aperti. Tutto questo continuando a versare le tasse allo Stato e parliamo di gettiti non indifferenti».

Quanto è difficile fare impresa nel nostro Paese?

«Molto, a volte dobbiamo rinunciare proprio per la burocrazia che blocca gli investimenti degli imprenditori. Per lo sport in Italia c'è una forte contraddizione, esistono due categorie di aziende, con o senza scopo di lucro. Noi che siamo a scopo di lucro arriviamo ad una tassazione del 30% più le tasse comunali.

Gli altri non pagano nulla e non portano gettito allo Stato, non assumono dipendenti o creano indotto».

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