Arte

A Milano fioriscono i mostri di Ryan Heshka

Alieni e B-movie, biologia marina, estetica pin-up e molto altro nelle opere dell'artista canadese

A Milano fioriscono i mostri di Ryan Heshka

Ce l'ha insegnata il postmoderno, e anche se oggi trova raramente applicazione, ché il postmoderno è demodé, la regola è infallibile: quando in un artista si possono individuare più di cinque influenze, vuol dire che ha sviluppato uno stile personale. Sembra un paradosso, ma ha senso: il risultato dell'insieme è diverso e superiore alla somma delle componenti, quando sono così tante. Non è una regola che insegnano nelle accademie, è solo una regola che mi sono inventato io. Ma per Ryan Heshka funziona alla perfezione.

«Springs to come» è la nuova personale dell'artista canadese, classe 1970, figura di culto assente dall'Italia da cinque anni e finalmente di nuovo in mostra a Milano, da Antonio Colombo Arte Contemporanea, fino al 28 marzo (catalogo a cura di Ivan Quaroni, prezzi da 500 a 29000 euro). Fra tele e carte, dipinte a olio, acquerello o pastello, nella galleria di via Solferino sono esposte una trentina di opere, corredate da un set di schizzi e lavori preparatori. Dentro ci vedi i B-movie fanta-horror, le stravaganze da side show, i fumetti di Charles Burns e Daniel Torres, gli alieni di Star Trek, la biologia marina, l'entomologia, i manifesti pubblicitari anni '50, Giulio Verne, l'estetica pin-up, la grafica lounge... e potrei continuare e continuare, altro che cinque influenze. Eppure, un'opera di Ryan Heshka la riconosci tra mille.

Heshka, di fatto, lavora anche con il medium fumetto (se frugate online, qualche suo album si trova), e pure con l'illustrazione, tanto che suoi lavori sono apparsi letteralmente ovunque, da Esquire a Vanity Fair, da American Illustration ad Applied Arts. Ma qui a Milano ci sono solo le sue opere uniche, dipinti dove lascia da parte le semplificazioni di tratto e le indicazioni tematiche dettate dalle committenze per fare l'artista a tutto tondo, con libertà di mano e di immaginario. Se si vuole etichettarlo, non c'è di meglio che definire il suo stile Surrealismo Pop. Anche se, più sottilmente, come suggerisce Ivan Quaroni nel testo del catalogo, le tematiche di Heshka sembrano abbracciare alcuni aspetti della corrente filosofica del realismo speculativo - che sostiene che l'uomo abbia accesso alla cosa in sé, all'essenza del reale, oltre l'apparenza e il fenomenologico - e della dark ecology, una visione dell'ecologia che abbandona l'approccio antropocentrico per suggerire un contatto con esseri non-umani, nella consapevolezza del lato oscuro e distruttivo della natura. Se suonasse un po' criptico, provo a semplificare radicalmente: Ryan Heshka dipinge mostri. Cioè creature impossibili, chimeriche, umani con pelliccia canina, omuncoli con ali di pipistrello, dark ladies con volto di teschio, dandy con completi di tweed e teste di fungo. Eppure ogni quadro, nelle primavere in arrivo di «Springs to come», esplode nei colori vividi e caldi della natura che rinasce - rossi, gialli, verdi - tanto che l'atmosfera che si respira nei dipinti non è oscura o minacciosa, ma piuttosto frizzante, provocatoria, sensuale, allegra. Mostri da festa, verrebbe da dire, o meglio party monsters, per assecondare la lingua di Heshka. Gli stessi che affollavano l'evento-opening del 15 febbraio?

È una domanda lecita, perché se c'è una galleria, a Milano, capace di attirare le stranezze della cosiddetta fauna d'arte (come l'ha chiamata Pier Vittorio Tondelli nella serie di articoli raccolti in Un weekend postmoderno), è quella di Antonio Colombo. Personaggio arty lui stesso, gli ha dedicato un bel ritratto Luca Beatrice nel recente Le vite, a cui io aggiungo la sottolineatura dell'aspetto da dandy-guascone, da vecchio ragazzo zero manfrine e tanto anticonformismo, che lo piazza fuori registro rispetto ai tipici galleristi italiani, per solito cauti, sobriamente eleganti, distrattamente snob. Ma insomma, la fauna d'arte all'opening di Heshka c'era? Un po', ma non troppa. E com'era? Variegata. Da decenni, forse proprio dagli anni '80 tondelliani, non esiste più una tendenza, un look specifico da artista, né generazionale né trasversale. Eppure gira ancora il luogo comune secondo cui i giovani artisti e appassionati d'arte sarebbero tutti spettinati, tutti vestiti di nero, possibilmente in abiti sformati e polverosi. Ma quando mai. Anticonformisti, piuttosto, e mai tetri o deprimenti.

Infatti, tra chi affollava l'inaugurazione di «Springs to come», era semmai il colore a prevalere. Soprattutto nei capelli: ho visto una chioma fluente platinata che sfumava nel rosa, un po' unicorno e un po' Winx; un gruppo di tre, scommetterei studentesse (Brera? Ma forse più Naba o Iulm), con capelli nerissimi, la frangetta virata al verde-azzurro, e una, pure, con occhi spettacolarmente truccati da gatto; ma soprattutto mi ha stregato un caschetto color carota-evidenziatore, che sbucava da sotto un passamontagna lilla, apparentemente sferruzzato a mano, con applicate due simpatiche orecchie di lana gialla. E poi c'erano anche due o tre pastrani di pelle nera, d'accordo, il nero è sempre il nero qualunque sia il contesto, ma ho avvistato anche un cappotto uscito da un quadro di Frida Kahlo, un impermeabile di gomma verde, pantaloni rosso acceso, molto rosa ma pure molto beige e blu-marine, e salendo d'età, passando dai venti-trenta ai cinquanta-sessanta, viaggiavano anche alcune barbe rimarchevoli, un discreto numero di teste rasate, dei cappotti alla Ian Anderson (genere copertina di Aqualung), e persino qualche paio di camperos. Con poi, a diluire, tanti outfit discreti e senza pretese. Si dirà: ma è esattamente lo stesso tipo di varietà che puoi vedere, a Milano, passeggiando in Duomo o prendendo un aperitivo al quartiere Isola. Vero. Ma qui, in questa galleria, che è diversa dalle altre, la varietà è sempre più densa, concentrata, spumeggiante.

E soprattutto c'è lui, Antonio Colombo. All'openinig era in giacca a quadri, pantaloni neri e spettacolari ciabatte North Face trapuntate. Accoglieva gli invitati dispensando cataloghi, strette di mano, birrette, e lasciandosi fotografare con Heshka, il più imprevedibile di tutti.

Perché, diversamente da quanto dipinge, è un gigante buono alto due metri, che si veste in jeans e camicia.

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