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Trump archivia la diversità forzata nelle università statunitensi

L’amministrazione Trump sferra un colpo alle misure di “discriminazione positiva” nelle università, varate dalla precedente amministrazione Obama

Trump archivia la diversità forzata nelle università statunitensi

L’amministrazione del presidente Usa, Donald Trump, si appresta a varare nuove linee guida nazionali per le ammissioni alle università, archiviando le politiche di “discriminazione positiva” volute dall’ex presidente Barack Obama per aumentare il numero dei giovani afroamericani e ispanici iscritti agli atenei.

I dipartimenti di Giustizia ed Istruzione degli Stati Uniti hanno notificato martedì l’abrogazione delle linee guida introdotte nel 2011 dall’amministrazione Obama: si trattava di raccomandazioni di carattere legale tese a promuovere l’adozione della razza come fattore determinante per l’ammissione universitaria, in nome della “diversità” dei corpi studenteschi. Quello annunciato dai due dipartimenti è l’intervento di più alto profilo sinora intrapreso dall’amministrazione Trump contro la vasta espansione delle politiche di “affirmative action” perseguita da Obama, perlopiù tramite il ricorso a decreti presidenziali e regolamenti contestati sul piano della legittimità costituzionale. L’amministrazione Trump non ha ancora emesso orientamenti alternativi, ma ha già fatto trapelare l’intenzione di tornare a criteri di ammissione indipendenti dalla razza dei candidati; il dipartimento dell’Istruzione, frattanto, ha ripristinato sul proprio sito web le indicazioni “race-neutral” formulate dall’amministrazione del presidente George W. Bush.

Per “affirmative action” si intende una serie di leggi, politiche, linee guida e pratiche amministrative “tese a porre fine e correggere gli effetti di specifiche forme di discriminazione”. Tali politiche non si limitano alla garanzia dell’eguaglianza di fronte alla legge; piuttosto, introducono a loro volta meccanismi di “discriminazione positiva”, teoricamente destinati a correggere i torti storici subiti da specifiche minoranze o categorie vulnerabili. Negli Usa, queste politiche sono state assunte a livello nazionale a partire dalla fine degli anni Sessanta. Il primo provvedimento federale in tal senso, il “Revised Philadelphia Plan” del 1969, obbliga alcune categorie di appaltatori dello Stato a definire “obiettivi e tempistiche” per la diversificazione razziale della forza lavoro. Nei decenni successivi l’“affirmative action” si è tramutato in un vasto corpus di leggi, regolamenti, politiche e pratiche volontarie estese alla totalità dei soggetti pubblici e privati statunitensi; solo nel 2003 la Corte Suprema Usa si è espressa in maniera parziale riguardo la liceità di tali ordini di pratiche, attraverso la sentenza “Grutter v. Bollinger”.

I presupposti stessi dell’“affirmative action” restano un argomento fortemente controverso. Secondo i critici delle politiche di “discriminazione positiva”, quest’ultima costituisce una palese violazione di quell’eguaglianza delle opportunità su cui poggiano le moderne società meritocratiche occidentali. I sostenitori dell’ “affirmative action” lo ritengono invece un pilastro fondamentale della tutela dei diritti civili, che negli Stati Uniti sono sempre più definiti – specie nel mondo accademico – attraverso la lente delle politiche “identitarie” e dall’appartenenza soggettiva a “minoranze” variamente definite. Non è un caso che nel solco dello stesso, aspro dibattito si siano inserite le decisioni del segretario dell’Istruzione Usa, Betsy DeVos, di ritirare le direttive della precedente amministrazione sull’utilizzo dei bagni universitari da parte degli studenti transessuali; e quelle, egualmente controverse, sul contrasto alle molestie sessuali in ambiente universitario, che di fatto negavano la presunzione di innocenza agli accusati di sesso maschile. In entrambi i casi, il ritiro delle linee guida federali ha prodotto scarsi risultati concreti, dal momento che gli atenei hanno spontaneamente mantenuto in vigore le medesime politiche.

Proprio da questo punto di vista, la revoca delle linee guida obamiane in materia di ammissioni universitarie difficilmente sortirà effetti immediati: diversi atenei statunitensi si sono già affrettati a puntualizzare che non recepiranno le nuove linee guida. I criteri di ammissione definiti dalle singole università statunitensi, del resto, sono un argomento su cui regna la massima opacità.

Esiste un aspetto cruciale quanto ironico, ma spesso trascurato, del dibattito sui criteri di “discriminazione positiva” adottati dalle università statunitensi. Decenni di queste politiche sono paradossalmente culminati in un calo delle immatricolazioni di studenti afroamericani e ispanici, specie negli atenei più prestigiosi. Le ragioni di questo fallimento sono oggetto di dibattito, ma in parte vanno ricercate proprio nell’assoluta arbitrarietà dei regolamenti adottati dalle università. Le politiche di discriminazione razziale positiva praticate dagli atenei, infatti, non tengono conto della cittadinanza; spesso, dietro il pretesto della “diversità”, queste politiche agevolano l’ammissione di facoltosi studenti internazionali da paesi terzi, a prescindere dai loro meriti accademici. Per loro stessa natura, inoltre, le politiche di “discriminazione positiva” si sono via via caricate di connotazioni ideologiche che nulla hanno a che fare con le loro finalità nominali. Numerose università Usa - appoggiate dalle amministrazioni statali democratiche - facilitano l’ammissione dei figli di immigrati irregolari, sul piano economico e dei requisiti d’ingresso. Al contempo, le “discriminazioni positive” si traducono in una discriminazione vera e propria degli studenti bianchi, ma soprattutto degli asiatici, soggetti a criteri di ammissione assai più stringenti rispetto alla media.

Decenni di “discriminazioni positive”, teorizzate negli anni Sessanta proprio dalle avanguardie progressiste del mondo accademico statunitense, hanno reso i campus universitari ambienti votati alla glorificazione della “diversità” etnico-razziale come valore assoluto, e teatri di crociate contro il “privilegio sistemico” generalmente attribuito ai bianchi, specie se di sesso maschile. Numerose università statunitensi contrastano attivamente lo scambio dialettico di opinioni. Il dibattito sulla base delle idee è etichettato dagli stessi atenei come forma di “micro aggressione”, da cui gli studenti vanno tutelati tramite l’iper-regolamentazione linguistica e comportamentale, e la creazione di “spazi sicuri” (“safe spaces”), dove le deboli menti dei giovani universitari possano trovare ristoro da traumi come l’elezione del presidente Trump.

Non sorprende, date queste premesse, l’esito di un recente sondaggio di Gallup, da cui emerge che la maggioranza degli studenti universitari statunitensi ritiene i concetti di “diversità” e “inclusione” più importanti della libertà di parola sancita dal Primo emendamento della Costituzione Usa. Dall’imperativo della “diversità” è evidentemente esentato l'orientamento ideologico dei professori universitari: uno studio approfondito del 2007 attesta che i conservatori e i moderati di centro-destra costituiscono una sparuta minoranza del corpo docenti. E mentre negli atenei Usa proliferano facoltà e programmi votati agli studi su “genere, razza, sessualità e giustizia sociale”, le lucrose immatricolazioni da parte degli studenti internazionali continuano a calare.

A registrare un calo, soprattutto, è il livello medio di preparazione degli allievi, che un recente studio (Cla+) ha scoperto essere sempre più deficitario, specie in termini di capacità di analisi e pensiero critico.

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