Controcultura

In "Words and Music" i primi passi folk del poeta del rock. Nel segno inconfondibile di Bob Dylan

In "Words and Music" i primi passi folk del poeta del rock. Nel segno inconfondibile di Bob Dylan

Nudo e crudo. È così che Words & Music, May 1965 ci presenta Lou Reed: attraverso i suoi primi demo incisi nel 1965, con alcune bonus track risalenti addirittura al periodo 1958-1964. Con quel pizzico di ingenuità giovanile che caratterizza inevitabilmente la verde età, quando ancora il carattere non è del tutto formato e lo stile risente apertamente dei modelli di ispirazione. Persino un po’ stonato. L’intonazione non è mai stata il suo forte, ma ha finito per rappresentarne una sorta di marchio di fabbrica, un tratto stilistico riconoscibilissimo, con quel suo modo sussurrato (più che cantato) di trascinare le parole e quel suo forte accento di Brooklyn. Un Lou Reed senza fronzoli, dunque, unicamente ammantato della coperta folk e blues sotto la quale ha trovato conforto una generazione intera di musicisti americani nella prima metà degli anni Sessanta. Stregate dal rock’n’roll ma folgorate sulle strade del Delta del Mississippi - o fulminate sulle vie sempre più tossiche delle metropoli statunitensi - schiere di giovani entusiasti e un po’ ingenui abbracciarono la «nuova musica vecchia», ovvero la tradizione dei genitori da cui stavano prendendo le distanze proprio accostandosi ai loro antenati. I brani di Words & Music, May 1965 sono poco più che demo di lavoro, anticipati dalla voce di Reed che ne fornisce titolo e autore. Ci sono sette canzoni del tutto inedite e una serie di versioni mai sentite prima. Per esempio, I’m waiting for the man, che indica senza esitazione la strada percorsa da Lou Reed fino a quel momento: echi degli Everly Brothers nelle armonie vocali, ma anche una sottotraccia di country-blues che, quando l’armonica a bocca si insinua tra i solchi, fa tanto Bob Dylan. E non potrebbe che essere così. Men of good fortune richiama alla memoria The times they are a-changin’ dello stesso Dylan che, è risaputo, ha abbondantemente saccheggiato lo sterminato repertorio dei canti tradizionali americani, appropriandosi spesso di melodie e spezzoni di liriche. Se Lou Reed più che cantare parla, l’impatto avuto sulla sua formazione dai talkin’ blues non può essere sottostimato. Ascoltatevi il suo classico Heroin per averne conferma. Con Buttercup Song e Buzz buzz buzz si ha la sensazione di stare sugli Appalachi, dalle parti della Carter Family e, perché no, accanto a un jukebox che irradi country & western trasformato in rockabilly da icone come Buddy Holly e Carl Perkins. Wrap your troubles in dreams, con una chitarra minimale, quasi inesistente, e un’ipnotica percussione, mostra già il tentativo di scostarsi dagli stilemi del folk revival, una camicia di forza di cui Dylan si stava già abbondantemente liberando. Quanto deve essere stata dura per il giovane Lou scostarsi dalla sua ombra scomoda: Don’t think twice, it’s all right è una sorta di tributo dovuto.

Lou Reed in questi demo appare ridotto all’osso ma già proiettato sul piano creativo verso altri lidi.

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