Cronaca locale

Il grido dei piccoli imprenditori: "Così lo Stato ci mette le manette"

I piccoli imprenditori temono di non riuscire a ripartire con la fine del lockdown. Molti saranno costretti a licenziare. Chi stava progettando di allargarsi, ora deve fermarsi per provare a restare a galla

Il grido dei piccoli imprenditori: "Così lo Stato ci mette le manette"

Chiusura, licenziamenti, blocco degli investimenti. Sono queste le previsioni per il futuro di molti piccoli imprenditori. I contributi stanno arrivando a rilento ai titolari di partita Iva, i dipendenti sono ancora senza cassa integrazione, ai prestiti garantiti dallo Stato non possono accedere tutti e chi ha fatto domanda resta in attesa di risposta. Intanto, la sospensione delle attività imposta dalla pandemia da Covid-19 non ha bloccato le spese, che continuano a gravare sulle casse delle imprese. Anche se gli incassi si sono ridotti a zero con l’avvio del lockdown, i costi da sostenere non sono spariti, bisogna pagare i fitti dei locali, le utenze. La ripartenza si avvicina, ma le restrizioni che bisognerà rispettare per ricominciare e la mancanza di sostegni economici adeguati, lascia intravedere solo un futuro incerto, per qualcuno già inesistente. In questa situazione, il rischio, soprattutto per molte piccole imprese, è la chiusura. E, per chi riuscirà ad alzare la saracinesca, è quello di licenziare personale. All’orizzonte l’unica certezza sono gli ulteriori costi che gli imprenditori dovranno sobbarcarsi per sanificazioni e sicurezza. In molti, poi, già calcolano che andranno incontro a un calo del fatturato.

“Io penso che chiuderò”. Ne è quasi convinta Marina. A Napoli ha preso in gestione il suo ristorante di sushi appena a dicembre scorso. “Questa attività l’ho disegnata io, ho disegnato persino i mobili, ho investito tutti i miei risparmi”, racconta. Ora, però, non sa proprio come andare avanti. Quando era in piena attività, per pareggiare i conti in un mese doveva incassare almeno 11 mila euro. Dopo 2 mesi di chiusura, di soluzioni per riuscire a risollevarsi non ne trova. “Sembra di stare in un incubo. Sono arrabbiata e preoccupata, preoccupata perché non vedo un futuro”, dice. “A 42 anni sono dovuta ritornare dai miei e mio padre mi deve fare la spesa”, svela con un nodo in gola. “Ho ricevuto 600 euro solo due giorni fa, e l’unico dipendente che mi era rimasto deve ancora percepire la cassa integrazione”. Poi, ragionando sul futuro, guarda quella piccola sala dove si preoccupa di accogliere i clienti curando ogni minimo dettaglio. Pensa a come dovrà cambiare quello spazio, a come dovrà svuotarsi nel rispetto delle regole per il distanziamento sociale, e vede sempre più sfumare quel sogno che era diventato realtà solo pochi mesi fa con tanti sacrifici. Se le distanze da rispettare dovranno essere di almeno un metro, i suoi 20 posti a sedere diventeranno 4. Così sarà impensabile la sopravvivenza della sua piccola impresa. Marina nella cucina ha un pozzetto pieno di alimenti: “Sono 5 mila euro di prodotti. Tutto da buttare”, dice. Per ricominciare dovrà spenderne altri 5 mila. “Questi sono gamberi blu – spiega mostrando una confezione destinata a diventare rifiuto – di questi pacchi bisogna comprarne 4 alla volta e a noi vengono a costare 300 euro”. Poi sacchi di riso da 10 chili, 1500 euro di salmone, tonno. Tutto destinato all’immondizia. Tutti investimenti bruciati a causa del coronavirus. “Prima di chiudere ho comprato 1200 euro di prodotti disinfettanti, perché disinfettare è la base in un ristorante”, sottolinea. I cartoni sono accatastati in uno sgabuzzino, ma per la riapertura non bastano più solo quelli. Bisognerà sanificare costantemente, avere sempre disinfettanti per le mani a disposizione, mascherine, guanti e ogni dispositivo che sarà richiesto per la sicurezza di tutti.

“Per una piccola azienda come la mia ci vogliono 1500 euro per sanificare, per le aziende come quelle dei miei colleghi si parla di non meno di 3500 euro”, spiega il titolare di un piccolo bar situato nel quartiere di Fuorigrotta. Tutte spese a carico dell’imprenditore. Una ventina i titolari di bar della stessa zona che si stanno muovendo in sinergia per chiedere al governi sostegni più adeguati alla loro categoria. Molti sono imprenditori figli della crisi del 2008: in assenza di lavoro si inventarono imprenditori, oggi, dopo poco più di 10 anni, si ritrovano a ricominciare, di nuovo senza alcuna certezza: “Molti di noi sono imprenditori perché hanno realizzato già 10 anni fa, che non c’era la possibilità di andare a chiedere posti di lavoro. Noi ci siamo dovuti adeguare. Siamo ritornati indietro di 10 anni, è come se ora mi fossi diplomato e stessi andando a fare l’imprenditore”, ironizza qualcuno. Chiedono fondi per ripartire, e di poterli ottenere velocemente, seguendo procedure più snelle. Chiedono “un merito creditizio facilitato”. Sui prestiti garantiti dallo Stato, dicono: “Tutto fermo. Stanno bocciando tutte le pratiche. Presentate domande e nessuna risposta ancora”. Qualcuno li ha pure evitati: “Sono antieconomici se non c’è certezza del futuro” “Messi insieme, contiamo circa 300 dipendenti”, dice uno di loro. E prevedono, purtroppo, licenziamenti. “I costi sono insostenibili”, spiegano. “Io dovrò licenziare quattro dipendenti”, ha già calcolato una giovane imprenditrice del gruppo. “Noi non vogliamo niente a fondo perduto, noi vogliamo solo poter ricominciare a lavorare”, precisano.

“Lo Stato ci ha sempre chiesto e noi nel nostro piccolo abbiamo sempre pagato. Ora non stiamo chiedendo chissà cosa: ci deve mettere nella possibilità di poter lavorare, perché già prima si faceva fatica, adesso ci ha stroncati”, sbotta Tina, titolare di due pizzerie, a Napoli e a Ischia. Ad Ischia ha aperto il locale l’anno scorso ed è quello su cui sta riflettendo per la chiusura. A Napoli i posti a sedere sono 220. Con il distanziamento di almeno un metro, dimezzeranno: “Io lavoro con i tavoli. Già era difficile prima – spiega - Se devo aprire come hanno detto loro, devo fare una scelta, devo scegliere chi mandare a casa”. Alle sue dipendenze lavorano 15 persone. Prevede di licenziarne una decina. “I miei dipendenti sono una famiglia per me. Io ci vivo 12-14 ore al giorno con loro. So tutto di loro, ogni loro problema. E che gli dico? Ragazzi, non posso aprire più?”. “Le previsioni sono nere – pronostica Tina – perché non sarà il 50% in meno, ma l’80% in meno del fatturato”.

Sono circa 130 i piccoli imprenditori che a Napoli, nel giro di pochi giorni, si sono messi insieme per porre queste questioni all’attenzione di governo regionale e nazionale. Antonio Cardone, 38enne con attività nel campo della ristorazione e distribuzione, è uno dei coordinatori. Una famiglia di imprenditori, la sua. Una sorella attiva nella ristorazione. La moglie gestisce un albergo nel centro storico di Napoli. “Abbiamo valutato l’ipotesi di dover chiudere”, afferma anche lui. Per manifestare disappunto rispetto alle misure predisposte a favore delle imprese e per chiedere un sostegno economico più incisivo, delle risposte da parte del governo più adeguate a fronteggiare l’emergenza economica generata dal virus, il gruppo di imprenditori campani avanza delle proposte, già pronte per la presentazione ai tavoli della Regione Campania. Chiede un fondo per sostenere le famiglie, poi un contributo a copertura almeno del 50% i costi del fitto dei locali commerciali, un anno bianco per tasse e tributi, poi “semplificare la parte burocratica”, elenca Cardone. “Per chiedere il prestito che hanno messo a disposizione – rivela - bisogna fare delle lunghe file, le attese sono lunghe e bisogna avere dei requisiti per accedere a questi finanziamenti, ma un imprenditore impegnato nel turismo o in attività legate alla movida non chiederà mai questi fondi, perché vuol dire indebitarsi per poter sostenere i contributi. E io capisco le persone che non accetteranno e chiuderanno”. Gli imprenditori che si devono districare tra informazioni poco chiare e misure differenti per ogni regione, chiedono quindi più chiarezza, uniformità e procedure più snelle. Infine, reclamano il prolungamento della cassa integrazione per altri 6 mesi per i dipendenti.

“Altre nove settimane sono poche: arriviamo fino a luglio, e, commercialmente, giugno, luglio e agosto sono periodi morti dal punto di vista lavorativo. Ci vorrebbe minimo la cassa integrazione fino a Natale, oltre a un indennizzo sui costi che riguardano le utenze commerciali, le locazioni”, dice Stefano Meer, commercialista e imprenditore del settore ristorazione. A 33 anni porta avanti due take-away a Napoli. Da una rosticceria rilevata dal nonno, nata nel 1967, si è allargato aprendo qualche anno fa un secondo locale e, con l’idea di creare una catena, ha investito anche in due laboratori, che dovrebbero servire da base per nuovi punti vendita. Ma il virus ha bloccato tutti i progetti. “Purtroppo ad oggi non mi sento più di programmare fino a settembre. Mi sento con le manette, non so come operare anche per i prossimi mesi”. Stefano stava pianificando di aprire a Milano, Roma e Napoli, di assumere quindi altro personale. Per ora resta tutto fermo. “A febbraio stavo firmando per un locale. Menomale che non è andata a buon fine”, dice oggi. Già ha preventivato che dovrà andare incontro a una riduzione del fatturato. Risentirà del calo dei passanti e dell’assenza di turisti. “Faccio tanti sacrifici da anni- si racconta - e il mio sogno è che a settembre, a ottobre, tutto questo diventerà solo un brutto ricordo”. Gli imprenditori oggi iniziano a immaginare anche gli scenari che si presenteranno in fase di ripartenza: la perdita di posti di lavoro, la fame, la paura per il contagio, l’aumento della criminalità. Chi riuscirà a restare a galla dovrà farci i conti. “Una mia amica – racconta Marina – ha un bar a Torre del Greco e ha subito una rapina per delle merendine. Un’altra lavora al casello stradale e le hanno rubato monetine dicendo che avevano fame”. “Mi sembra di stare in un incubo, lo Stato ci deve aiutare. Così si muore”, dice.

E sono tutti d’accordo.

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