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La "squadretta" degli orrori del colonnello Russo

Renato Olino, l'ex carabiniere che nel 1976 assistette alle torture sui ragazzi sospettati di essere gli autori della strage di Alcamo Marina, si racconta e ricorda la "squadretta" del colonnello Giuseppe Russo

La "squadretta" degli orrori del colonnello Russo

In occasione della pubblicazione della relazione finale del gruppo di lavoro sulla strage di Alcamo Marina (costola della Commissione parlamentare antimafia, attiva fino allo scioglimento della XVIII Legislatura), abbiamo raccontato di una clamorosa emorragia di documentazione riservata, finita nelle mani di diverse persone per opera di un componente stesso del gruppo di lavoro. A margine, abbiamo solamente accennato a quello che è stato l’oggetto delle attenzioni di questo gruppo: la strage di Alcamo Marina, appunto.

Riassumendo in poche righe i fatti, avevamo parlato anche di chi, nel 2008, aveva contribuito con le sue parole a riaccendere i riflettori sui fatti del 1976, di fatto scagionando quelli che fino a quel momento erano ritenuti responsabili del massacro di due carabinieri. Stiamo parlando dell’ex carabiniere Renato Olino, da noi erroneamente definito, in quella occasione, un “pentito”.

Contattati dal legale di Olino, dopo una doverosa rettifica, abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con quello che, a tutti gli effetti, è uno dei pochi testimoni ancora in grado di riferire episodi vissuti in prima persona che, come gli eventi che hanno interessato il gruppo di lavoro sulla strage dimostrano, ancora disturbano i sonni di molti.

Presente ad Alcamo Marina insieme ai suoi colleghi del Nucleo speciale antiterrorismo, giunti da Napoli per indagare nell’immediatezza dell’uccisione dei due colleghi presso la casermetta divenuta il set di un film horror, Olino assistette alle violenze perpetrate ai danni di alcuni ragazzi fermati nei giorni successivi il fatto. Disgustato da quanto vissuto, subito dopo lasciò l’Arma. Ma solo nel 2008 decise di liberarsi la coscienza. Gli abbiamo chiesto il perché, cosa sia avvenuto a tanti anni di distanza: “Lo spunto è arrivato da un frammento della trasmissione di Blu Notte. In una puntata chiamata "Sicilia Nera" è stata citata la strage di Alcamo, un flash di pochi secondi, che però ha risvegliato in me un vecchio trauma che ho tentato per decine di anni di mettere in evidenza. Mi riferisco cioè all’uso della tortura”.

Nelle deposizioni rilasciate nel 2010 di fronte alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, in occasione del processo di revisione per la posizione di Giuseppe Gulotta, in carcere dal 1976 in quanto ritenuto uno dei killer dei due carabinieri Apuzzo e Falcetta, Renato Olino ha detto di aver tentato anche prima del 2008 di denunciare quanto vissuto nel 1976. Gli abbiamo chiesto di tornare sul punto: “Confermo. Le dico che io amavo il mio lavoro e amo l’Arma dei carabinieri. Non volevo creare imbarazzo all’Arma perché quello sul quale facevo luce era un argomento tabù che ha determinato la mia decisione di togliermi la divisa di carabiniere. Sono andato lì [al Comando generale dei carabinieri di Roma, ndr], ho esposto per iscritto e descritto il comportamento investigativo in questa indagine. L’ho sottoposto all’attenzione di un subordinato del generale che mi ha però sconsigliato di parlarne, in quanto relativo ad un processo già fatto e definito. In altre parole, era inopportuno portare avanti la discussione. Io sto parlando di un periodo antecedente all’uccisione del mio superiore: mi riferisco colonnello Russo, che è stato un ufficiale di grande levatura. E questo lo dico per sottolineare che non c’era nulla contro le persone. Ciò che mi ha spinto è stato solo un mio bisogno di denunciare quanto avvenuto.

Dunque, considerando che il colonnello Giuseppe Russo è stato ucciso il 20 agosto del 1977 da un commando di corleonesi, quello di Olino è stato un sommovimento di coscienza immediato. Viene da chiedersi che fine abbia fatto la sua testimonianza messa nero su bianco e tombata. Nell’impossibilità – almeno per ora – di recuperare questo documento, torniamo al 2008 e gli chiediamo a chi si sia rivolto, stavolta, per farsi dare ascolto:

“Attraverso il web sono entrato in contatto con un sito legato a Blu Notte. Volevo cavalcare la notizia che avevano lanciato parlando della strage. Nello specifico, sono entrato in contatto con una certa Caterina. Mi ha chiesto perché fossi a conoscenza di un particolare, e cioè quello che avevo scritto in un mio intervento: che uno dei ragazzi fermati per la strage aveva presentato domanda di arruolamento nella guardia di finanza [dettaglio all’epoca sconosciuto al pubblico, ndr]. Ci siamo quindi scambiati i numeri e sentiti per telefono. Lei mi ha poi chiesto come facessi a sapere questi fatti. Io ho detto che ero un brigadiere dei carabinieri e di aver partecipato alle indagini. A quel punto mi ha svelato essere la nipote di Gulotta [Giuseppe, ndr]. Ho voluto sapere dove si trovasse suo zio. Alla mia domanda, mi ha risposto che stava scontando l’ergastolo a Firenze. La sua risposta è stata un macigno che mi ha travolto. In quel momento ho avuto la consapevolezza dei danni che erano stati fatti con quel tipo di indagini e interrogatori”.

Naturale a questo punto chiedergli se davvero – a distanza di tanto tempo – ignorasse la sorte di quei (all’epoca) ragazzi accusati della strage: “Non sapevo nulla. Lasciata l’Arma non ho avuto più possibilità di chiedere notizie. La stampa sembrava addormentata e nessuno parlava più di questo argomento. Lo stesso Carlo Lucarelli in quella trasmissione diceva che erano stati tutti liberati e assolti, e quelle parole mi davano tranquillità. E invece Caterina mi ha detto che suo zio stava scontando l’ergastolo. Altri due sono latitanti in Brasile [Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, ndr] mentre Giovanni Mandalà è morto di cancro in carcere. Questa notizia per me è stata una coltellata. Ho promesso a Caterina di far emergere la verità, quella verità della quale certamente non erano a conoscenza i giudici che hanno emesso sentenze di condanna così dure. Ho sentito il dovere di aprire questo box segreto che nessuno conosceva”.

E stavolta Olino ci riesce: “Inizialmente ho cominciato a frequentare un blog su Alcamo [dedicato alla strage, ndr], gestito da Maurizio Macaluso, un giornalista di Alcamo. Ho chiesto di intervenire con un’intervista. Lui ha pubblicato il mio racconto più volte. E questo ha suscitato la curiosità e l’interesse della Procura della Repubblica di Trapani nella persona del dottor Giacomo Bodero Maccabeo”.

Sentito in via informale una prima volta presso la sede della DIA di Napoli, dove il procuratore si reca per incontrare l’ex carabiniere, Olino poi vola a Trapani, dove viene ascoltato una seconda volta, stavolta ufficialmente, di fronte anche al magistrato Andrea Tarondo. Da questo momento, s’innesca l’iter che porta alla revisione del processo.

Tra le tante ombre che aleggiano sulla strage di Alcamo Marina, da qualche anno – dopo le esternazioni dell’ex ispettore di polizia Antonio Federico – si parla anche di un coinvolgimento della struttura Gladio. Ma all’epoca la pista da battere era una soltanto: “L’indirizzo investigativo era orientato prevalentemente verso la sinistra extra parlamentare. Nemmeno la mafia veniva presa in considerazione”.

Il primo ad essere arrestato per la strage [e che con le sue parole porterà all’arresto degli altri, ndr] è Giuseppe Vesco, 24 anni, anarchico, privo di una mano e dalla personalità fragile. I carabinieri del Nucleo antiterrorismo giunti da Napoli si mettono subito al lavoro e qualcosa di interessante, in effetti, esce fuori: Vesco viene trovato in possesso di una pistola calibro 9 Parabellum, arma prettamente in dotazione ai carabinieri e all’esercito, la cui matricola risulta cancellata in modo insolito: non abrasa, ma “forata da parte a parte nella parte dove erano indicati i numeri di matricola dell’arma [...] questo particolare mi colpì in effetti abbastanza, perché sapevo che ci voleva [...] la durezza di questo metallo prevedeva l’uso [...] di un particolare acciaio” [deposizione di Renato Olino del 2010 di fronte alla Corte di Appello di Reggio Calabria, ndr].

Trovata l’arma, su Vesco convergono i fondati sospetti che sia lui il o uno dei killer della casermetta di Alcamo Marina. I carabinieri di Napoli, Olino incluso, procedono allora alla perquisizione dell’abitazione del ragazzo. In un garage di sua proprietà viene trovata una morsa da meccanico e Olino viene colpito “dalla presenza di punte da trapano di tipo nero, che era un acciaio super rapido e precisamente il calibro dei fori dell’arma [...] era compatibile con i fori” [deposizione di Renato Olino del 2010 di fronte alla Corte di Appello di Reggio Calabria, ndr]

L’indagine sembrerebbe a una svolta. Olino si reca in tutta fretta a Palermo, dove ha prestato servizio per quattro anni, per riferire tutto al suo ex superiore, il colonnello Giuseppe Russo, con il quale intrattiene ottimi rapporti. Informato l’uomo su quanto emerso a carico di Vesco, avviene qualcosa. È l’avvio della catena di eventi che porta agli orrori perpetrati prima sull’anarchico e poi sugli altri arrestati.

Di fronte a Olino, in attesa nel suo ufficio, Russo fa una telefonata. Pochi secondi per riferire a un suo superiore – rimasto ad oggi ignoto – la possibilità di effettuare una comparazione preliminare sulle armi. Sull’identità dell’interlocutore Renato Olino ci dice di essersi fatto un’idea, ma di non avere elementi per dimostrarla. Ad ogni modo, terminata la comunicazione, Russo si rivolge a un sottufficiale presente nella stanza e gli dice: “Prepara la squadretta e si va ad Alcamo”.

Olino torna ad Alcamo con Giuseppe Russo e la sua “squadretta”. Si recano nella casermetta di Sirignano, dove nel frattempo è stato tradotto Vesco. E cominciano le torture.

Renato Olino assiste impotente: “Io all’epoca ero sottoposto ad una sudditanza emotiva, psicologica e gerarchica. Non potevo ribellarmi o cambiare lo stato dei fatti. Dovevo semplicemente assistere. Ho detto al colonnello Russo che stavamo sulla strada sbagliata. Avevamo raccolto elementi per mandare Vesco da un giudice: avevamo le armi, la macchina rubata…”

Ma questo non basta, la “squadretta” si mette all’opera e dà l’impressione di funzionare come una macchina: “La squadra non aveva bisogno di ordini; agiva come un corpo unico nella preparazione del secchio con acqua e sale, nel legare l’indagato alle casse di legno. [Olino si riferisce alla pratica dell’annegamento simulato e della “cassetta”, ovvero dello schiacciamento del torace del torturato, ndr]. Era un metodo ben sperimentato. Io non ero accettato alla corte di questa squadretta. Mi sono trovato ad essere presente. Sono arrivato ad Alcamo con una qualifica superiore, in quanto appartenevo ad un reparto specializzato, e quindi davo più garanzie di silenzio. Invece mi sono portato dentro il mio modo di essere democratico”.

Le parole di Renato Olino fanno rabbrividire. In quanto appartenente a un nucleo specializzato, i membri della “squadretta”, di cui fa parte anche un medico preposto al monitoraggio delle funzioni vitali del torturato, non si fanno molti problemi a operare in sua presenza.

Il rammarico di Olino, oggi, non è solamente per le torture inflitte agli arrestati, ma per la mancanza di una verità riguardo la strage e la morte dei due giovani carabinieri. Gli chiediamo se con quelle torture si sia persa l’occasione di ottenere giustizia: “Si è messa una pietra tombale sopra la ricerca delle cause e degli autori [della strage, ndr]. Io ho la convinzione che si sia trattata di una strage mafiosa, con avvertimento all’Arma. Eravamo sulla strada giusta e lì ci siamo fatti prendere in giro da lui [Giuseppe Vesco, ndr] che ha fatto quattro nomi per accontentarci. Ogni volta che veniva ripreso il trattamento con acqua e sale, buttava fuori un nome, e questo è nel mio verbale nell’interrogatorio”.

“Non mi sono mai espresso sull’innocenza e sulla colpevolezza [degli arrestati, ndr] – precisa Olino - ma sulla difficoltà di ritenerli tali seguendo un interrogatorio di quel genere. Mentre veniva interrogato [Vesco, ndr] dimostrava confusione, si dava l’aria dello scemo, però appena confessato l’assalto alla caserma, in presenza del padre, disse con molto orgoglio: “Noi rivendichiamo l’assalto alla caserma”. Si attribuiva la paternità dell’attacco. Diceva “noi” perché era chiaro che lui fosse affascinato dalla propaganda armata dei gruppi eversivi, all’epoca le Brigate Rosse”.

Quale sia la verità, quale sia stato il vero ruolo di Vesco, chi fosse il superiore che autorizzò Russo a mandare ad Alcamo la “squadretta”, se si sia trattata di una strage mafiosa, di matrice eversiva, se di mezzo ci fosse Gladio, difficile ad oggi dirlo. Difficile perché ancora oggi – come sostenuto dal legale di Olino – la strage di Alcamo Marina continua a mietere vittime. Difficile perché ancora oggi, quando sembra di essere a un passo dal disvelamento di qualche dettaglio determinante, si mette in moto la macchina del depistaggio.

Una delle poche cose certe che restano di questa storia è il suicidio professionale di Renato Olino.

“Abbiamo fatto la richiesta di status di vittima del dovere”, ci dice il legale, “adesso si stanno facendo degli accertamenti dovuti. Noi abbiamo palesato il suicidio professionale di Olino e la sua grande sofferenza. Ha assistito alle torture ed è stato costretto a farlo, come ha ribadito Olino, per via della gerarchia militare dell’epoca. Ha vissuto più di un contesto illegale all’epoca, conseguenza che poi l’ha portato a dover rinunciare al sogno della sua vita. Mai ha più potuto esercitare i suoi ideali all’interno dell’Arma. La ferita di Olino è aperta, si cicatrizzerà quando ci sarà giustizia. Assistere a torture equivale ad subirle, perché le lesioni morali spesso sono più incisive e più dolorose di quelle fisiche”.

A fare da pendant alle parole del legale, la convinzione più che manifesta di diversi blogger che, al contrario, sostengono con forza la malafede dell’ex carabiniere, arrivando addirittura ad attribuire un suo allontanamento dall’Arma per aver abbracciato l’ideologia eversiva ed essere divenuto simpatizzante, se non qualcosa di più, delle Brigate rosse. “Sciocchezze” taglia corto Renato Olino.

E di fronte alla totale mancanza di elementi oggettivi a sostegno di tesi simili, non possiamo che essere d’accordo con lui.

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