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Tre mafie alleate in Lombardia, c'è pure l'uomo di Messina Denaro. Ma è scontro col gip

Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra, avrebbero creato una sorta di sistema mafioso lombardo, che gestirebbe risorse finanziare, relazionali ed operative

Tre mafie alleate in Lombardia, c'è pure l'uomo di Messina Denaro. Ma è scontro col gip

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Tre mafie alleate in Lombardia, 150 indagati. E spunta l'uomo di Messina Denaro

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Per la procura di Milano la mafia di Matteo Messina Denaro, la camorra romano-napoletana e la potente ’ndrangheta calabrese farebbero affari insieme. Per il Gip non ci sarebbero abbastanza prove. Nasce con uno scontro il filone investigativo nato con le indagini dei Carabinieri dei Comandi Provinciali di Milano e Varese che sta portando alla esecuzione di 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, al sequestro di beni per un valore complessivo di oltre 225 milioni di euro ed alla notifica dell’avviso di conclusione indagini nei confronti di 153 indagati. Si tratta di una complessa attività di indagine coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano che ha riguardato un contesto criminale operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, formato da soggetti legati alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso. Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra, avrebbero creato una sorta di sistema mafioso lombardo, che gestirebbe risorse finanziare, relazionali ed operative, attraverso un vincolo stabile tra loro caratterizzato dalla gestione ed ottimizzazione dei rilevanti profitti derivanti da sofisticate operazioni finanziarie realizzate mettendo in comune società, capitali e liquidità. Nelle operazioni, comprensive anche di 60 perquisizioni, sono impegnati più di 600 carabinieri sull’intero territorio nazionale.

Secondo le indagini, coordinate dal procuratore capo Marcello Viola, il capo della Dda Alessandra Dolci e il pm Alessandra Cerreti ci sarebbe un’intesa tra gli esponenti mafiosi collegati alle famiglie Fidanzati e Rinzivillo, al clan del mandamento di Castelvetrano di Messina Denaro e il gruppo Mazzei, appartenenti alla cosca Iamonte per la ’ndrangheta e al gruppo Senese, il filone romano/napoletano legato al clan Moccia di Afragola impiantato stabilmente a Roma (dove il clan Senese è l’espressione criminale più evidente).

Il Gip Tommaso Perna non è d’accordo su questa tesi. L’ordinanza era stata depositata nelle scorse settimane ma gli inquirenti hanno deciso di ricorrere prima al Riesame per le richieste di custodia cautelare respinte e di chiudere le indagini contestualmente all’esecuzione dei pochi arresti accolti dal giudice. La Procura proverà a portare a processo gli oltre 150 indagati, dopo aver chiuso le indagini con atti notificati oggi, contestualmente all’esecuzione degli undici arresti.

L’inchiesta demolita dal gip dimostrerebbe "l'alleanza" tra le mafie in Lombardia di cui aveva parlato lo scorso agosto lo stesso Viola durante un’audizione alla commissione Antimafia. Recenti inchieste, aveva detto, "hanno evidenziato accordi stabili e duraturi tra ’ndrangheta, criminalità siciliana e quella di stampo camorristico", fenomeno questo "particolarmente allarmante in quanto" dà solidità a "una rete trasversale" che opera soprattutto nel "settore del riciclaggio". Dinamiche mafiose che, aveva spiegato Viola, "definiscono un network che si salda su interessi concreti". Ipotesi confermata nell’ultima relazione semestrale della Dia, la Direzione investigativa antimafia, che aveva scritto: in Lombardia i "sodalizi mafiosi sarebbero 'scesi a patti' per assicurare alle aziende affiliate una sorta di rotazione nell’assegnazione dei contratti pubblici, pilotando le offerte da presentare e contenendo anche le offerte al ribasso degli oneri connessi".

Ipotesi questa che secondo Perna non è stata sufficientemente provata, tanto da aver concesso solo undici misure in carcere e rigettato la richiesta per altri 142 indagati. "Non è stato possibile ricavare l’esistenza di un’associazione di tipo confederativo che raggruppa al suo interno le diverse componenti criminali - sottolinea il giudice - Quel che è del tutto assente nella presente indagine, da una parte, è la prova dell’esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile, dall’altra, dell’esternazione del metodo mafioso che deve caratterizzare l’unione tra persone e beni, tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante".

Si tratta di un procedimento nato originariamente da un filone delle indagini sulla locale di ’ndrangheta di Varese e dalle dichiarazioni del pentito Emanuele De Castro, figura di vertice della "locale" di ’ndrangheta di Lonate Pozzolo (Varese) arrestato nel 2019 nell’operazione "Krimisa". Sarebbe stato lui a svelare l’esistenza di questo presunto "sistema mafioso lombardo". In particolare, De Castro avrebbe fornito alla procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e alla pm Alessandra Cerreti i nomi di Massimo Rosi (arrestato) e Gaetano Cantarella, detto ’Tanu ù curtù, dal cui monitoraggio gli inquirenti sarebbero partiti per ricostruire i legami tra i vari esponenti dei clan di Cosa Nostra, ’ndrangheta e camorra. A Rosi, 37enne con precedenti, è stato attribuito un ruolo centrale nella "creazione di un sistema mafioso di tipo trasversale". Una ricostruzione non condivisa dal gip Perna che ha ritenuto, invece, che Rosi abbia agito "soprattutto nel settore del narcotraffico" in qualità di "componente apicale della locale di Legnano-Lonate Pozzolo, talvolta interagendo con singoli esponenti di altri gruppi".

Tra gli indagati della maxi-inchiesta della Dda di Milano sul presunto "sistema mafioso lombardo" figura anche il pregiudicato per mafia Paolo Aurelio Errante Parrino, 76 anni, ritenuto dalla pm Alessandra Cerreti il punto di riferimento di Matteo Messina Denaro e del mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia. Parrino avrebbe mantenuto i rapporti con il boss morto lo scorso 25 settembre, "rappresentando il punto di raccordo tra il sistema mafioso lombardo e l’ex latitante", a cui secondo la Cerreti avrebbe "trasferito tutte le comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l’associazione mafiosa". Parrino è uno dei mafiosi di cui i pm antimafia avevano chiesto la custodia cautelare in carcere, respinta dal gip.

Secondo l’ipotesi della Procura le tre criminalità avevano materialmente costruito un’unica struttura confederativa, di tipo federale, mantenendo rapporti autonomi con le mafie locali ma conservando le caratteristiche tipiche del 416 bis dalla solidarietà ai reciproci detenuti fino all’unione di scopo. Quale? Allestire centrali di riciclaggio che da un lato garantiscono di ripulire i proventi illeciti (come la mole di contanti dal traffico di stupefacenti), dall’altro attraverso società appositamente costituite per l’emissione di false fatture per operazioni inesistenti e la creazione di credito d’imposta, il cui valore nominale poteva essere riscattato o ceduto, prima che la società morisse per sempre.

L’inchiesta della Dda e le indagini dei carabinieri ridefinirebbero anche il concetto di "controllo del territorio", senza capi. "Le indagini hanno disvelato l’esistenza di una struttura ad organizzazione orizzontale all’interno della quale non esiste un vertice, ma più gruppi che si muovono parallelamente e che, in virtù di un accordo preventivo, assumono determinazione comuni funzionali allo sviluppo dell’associazione stessa", scrive la pm della Dda di Milano, Alessandra Cerreti, negli atti della maxi inchiesta . In questo contesto, - osserva il magistrato inquirente, "anche le diatribe tra le diverse componenti", come, ad esempio, quella tra Gioacchino Amico, presunto referente del clan Senese con i Pace della componente castelvetranese, "trovano una soluzione funzionale e necessaria a mantenere in vita quell’accordo che consente, a tutti, di trarre profitto".

Da anni questo network criminale, diventato secondo la pm Cerreti un consorzio, sarebbe stato in piedi grazie a un equilibrio orizzontale basato da una gestione "confederativa". Si tratta infatti di criminalità che condividono lo stesso territorio, si conoscono da anni, fanno affari insieme da tempo. Se lo scopo delle mafie, a Palermo, a Napoli o a Reggio è soprattutto controllare militarmente la zona, qui in Lombardia lo scopo è fare soldi. Un concetto di controllo che si è evoluto: dal territorio allo spazio economico. Uno spazio, dicono gli investigatori, in cui le tre mafie si sarebbero messe insieme a gestire dei business molto più puliti rispetto alle estorsioni, al movimento terra e alle altre tradizionali attività criminali.

Insomma, un conto è minacciare un imprenditore, un conto è fare false fatture, riciclarne i proventi, fare soldi ripuliti e reinvestirli, come dimostrano i beni sequestrati per oltre 225 milioni di euro.

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