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Ucraina, il Paese che non esiste (secondo Putin)

Nella politica di Mosca c'è la ricerca di una sfera d'influenza. Ma anche il rifiuto di accettare l'indipendenza del vicino occidentale. Russi e ucraini sono uno stesso popolo, ha scritto il leader del Cremlino, e il sentimento nazionale coltivato a Kiev è solo una falsificazione storica

Ucraina, il Paese che non esiste (secondo Putin)

Al numero tre di via Lavrska a Kiev, su una collina nel Parco dell'Eterna Gloria che si affaccia sul grande fiume Dniepr, il Museo dell'Holodomor è dedicato alla tragedia novecentesca meno celebrata d'Europa, lo sterminio perpetrato tra il 1932 e il 1933 dei kulaki ucraini. Erano costoro quei contadini che, a quindici anni dalla Rivoluzione d'Ottobre, possedevano ancora terre e bestiame ed erano restii a subirne l'esproprio. Per vincerne la resistenza, e con l'occasione soffocare quanto restava dello spirito nazionale ucraino, Stalin ordinò requisizioni su larga scala, causando intenzionalmente una carestia talmente spaventosa che si arrivò al cannibalismo. Studiosi documentatissimi come Timothy Snyder calcolano in 3,3 milioni i morti di fame e stenti nelle fertili campagne razziate dalle brigate di fanatici attivisti comunisti inviati da Mosca.

Se in Occidente questo dramma, ancor oggi impresso nella memoria di ogni famiglia ucraina, è pressoché ignorato, in Russia va peggio: nella «migliore» delle ipotesi viene derubricato a colpa staliniana senza intenti genocidi, nella peggiore (vedi recenti affermazioni dell'agenzia russa d'informazione Sputnik) a «grande bufala». Basterebbe la questione dell'Holodomor a chiarire perché il rapporto tra Russia e Ucraina è storicamente problematico, come solo può esserlo quello tra due popoli prossimi ma ineguali. E non soltanto perché quello russo è all'incirca quattro volte più numeroso, ma perché da almeno quattro secoli la Russia aveva di fatto inglobato quello ucraino, vietandone la lingua e la cultura, il cui emblema è il poeta settecentesco Tarash Shevcenko, oggi assurto a bardo nazionale a Kiev. La repressione, avviata dagli zar, si aggravò in epoca sovietica, tanto che nel 1941 all'arrivo degli invasori tedeschi molti ucraini s'illusero di trovare dei liberatori, venendo poi tragicamente delusi dalla bestialità nazista. L'Ucraina nominalmente Repubblica autonoma all'interno dell'Urss altro non fu che una vasta provincia assimilata dall'impero rosso, tanto da dargli più d'uno dei suoi massimi leader: era ucraino Nikita Krushchev, lo era almeno in parte Leonid Brezhnev. La stessa moglie di Mikhail Gorbaciov, Raissa, era di origini ucraine, come del resto parte della famiglia dell'ultimo capo dell'Urss.

Quando nel dicembre 1991 lo Stato fondato da Lenin collassò, Russia e Ucraina furono due delle ben quindici nazioni indipendenti che sorsero dalle sue ceneri. Boris Eltsin provò a tenere in vita le vecchie strutture dello Stato-impero nell'effimera Confederazione di Stati Indipendenti, ma Kiev scelse l'autonomia: nel 2003 partecipò perfino, insieme con gli Stati Uniti e i loro alleati, all'occupazione dell'Irak dopo la sconfitta di Saddam Hussein, mentre Mosca abbozzava. Nel 2000, però, era arrivato Putin al Cremlino, e dopo la crisi del 2008 nei rapporti con Washington la musica all'interno dell'ex Urss (che in Russia chiamano significativamente «il vicino estero») prese a cambiare.

Putin decise di incoraggiare la diffusa nostalgia della grande potenza sovietica, così ben descritta da Svetlana Aleksievic nel suo capolavoro Tempo di seconda mano, e sposò un aperto nazionalismo russo neo-imperiale. Si trovò anche un ideologo, peraltro da tempo defunto: l'inquietante Ivan Ilyin, un filosofo vicino ai «bianchi» sconfitti dai bolscevichi e vissuto in esilio nel Terzo Reich. Ilyin vagheggiava l'arrivo, in una Russia post-sovietica che non vide mai, di una «guida» (l'equivalente di Fuehrer, l'appellativo ufficiale di Adolf Hitler) che si ponesse al vertice di una «dittatura nazionale», altrimenti descritta come «democrazia sovrana» o «guidata». È il ritratto dell'odierna Russia di Putin, dove le elezioni vengono pilotate a piacimento della «Guida» e dove la priorità come scriveva Ilyin - è di «non svendere la Patria agli stranieri» e di combattere «gli occidentali ipocriti promotori di valori come la libertà». Putin ha integrato a modo suo l'ideologia di Ilyin, dando vita a un disinvolto sincretismo tra il suo nazionalismo di destra e quello di estrema sinistra di Stalin: da qui il cinico recupero della sua figura come «condottiero della grandezza nazionale» e la persecuzione di Memorial, l'organizzazione russa che documenta i crimini staliniani.

Ivan Ilyin questo il punto che qui più ci interessa - considerava un dovere patriottico dei russi la «protezione dei piccoli fratelli». Ovvero dei popoli ucraino e bielorusso, che pur lievemente differenziati dai «fratelli maggiori» russi dovevano essere inclusi in un unico destino storico e culturale. Questa visione nazional-imperiale Putin la fa propria fino a negare agli ucraini il diritto di definirsi nazione. Nel suo lungo articolo del luglio scorso intitolato «Sull'unità storica di Russi e Ucraini», egli afferma di «credere fermamente che Russi e Ucraini siano un unico popolo»; enfatizza «la comune disgrazia del muro emerso in anni recenti tra Russia e Ucraina in quello che essenzialmente è lo stesso spazio spirituale e storico»; spiega che questa comunanza trova le sue radici nell'antica Rus', che mille anni fa teneva insieme nella regione di Kiev russi, ucraini e bielorussi, con un'unica lingua e una comune fede ortodossa. Chiunque, sostiene Putin, oggi lavori per dividere questa sacra unione lo fa per conto di potenze straniere «che vogliono indebolirci»: chiaro il riferimento agli occidentali con cui gli attuali leader politici di Kiev si sono alleati. L'Ucraina indipendente, insomma, è a suo avviso una falsificazione storica, «interamente prodotto dell'era sovietica», in buona parte composta da terre strappate arbitrariamente alla Russia.

L'accusa più tagliente viene riservata a Lenin, che secondo Putin «piantò nelle fondazioni del nostro Stato (l'Urss, nda) la più pericolosa bomba a orologeria (cioè il diritto alla secessione delle Repubbliche sovietiche iscritto in Costituzione), che esplose quando nel 1991 collassò il potere comunista». Da una parte, dunque, Putin attacca l'Urss, dall'altra ne rimpiange la fine e vorrebbe rifondarla come impero russo. Ovvio che una tale visione, pur spesso accolta in Occidente, venga respinta dalla maggioranza degli ucraini. Autori come Olga Pavlovska citata dallo storico Ettore Cinnella nel suo «La tragedia della rivoluzione russa» ricordano che l'Ucraina è storicamente altra cosa rispetto alla Russia, in quanto incontro tra «Slavia Romana» e «Slavia Orthodoxa», con secoli di fusione politica e spirituale con le cattoliche Polonia e Lituania, senza tacere della dominazione austroungarica nelle sue province occidentali.

Recenti sondaggi mostrano che, dopo l'invasione russa della Crimea e del Donbass, ben l'88% degli ucraini sostengono l'indipendenza nazionale nonostante oltre il 40% mantenga una buona opinione dei russi. Ma attenzione: dei russi come popolo (così spesso mescolato a quello ucraino come si è visto). Lo Stato invece non piace affatto, per via della tradizione del Cremlino di considerare i popoli solo come pedine del suo gioco geopolitico, ignorandone o falsificandone sentimenti e desideri.

Putin non capisce che più insiste col trito slogan dei popoli fratelli, e più al fratello minore viene una voglia matta di scappare dall'altra parte, dove già da tempo e non per caso si sono rifugiati gli altri «fratelli» un tempo rinchiusi nell'imperiale prigione dei popoli sovietica. Così gli ucraini oggi non percepiscono il loro Paese solo come una patria etnica, ma come una casa democratica che sono decisi a difendere da un attacco che appare purtroppo possibile.

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