Letteratura

Nell'officina dello scrittore di racconti

Brevità, logica, ricerca della perfezione. Così una storia comincia dopo che è stata letta

Nell'officina dello scrittore di racconti

È pubblicata da La nave di Teseo "Gotico rosa", la nuova raccolta di racconti di Luca Ricci (pagg. 256, euro 18). Ricci, vincitore del Premio Chiara con i racconti "L'amore e altre forme d'odio", torna con nuove storie unite dal filo rosso di una domanda: che cosa sopravvive dell'amore dopo la fine del romanticismo? Ed ecco l'autore indagare le passioni, dall'innamoramento alla delusione, dal sesso alla disperazione, dall'accecamento all'ossessione... L'amore, con le sue luminosità e le sue zone oscure.

Chi inizia il proprio apprendistato letterario scrivendo racconti contrae un vizio difficile da sradicare. È difficile non proseguire per tutta la vita a scriverne, nonostante gli agenti, gli editori e perfino il pubblico ti incoraggino a smettere. Certo, il racconto è un modo evidente quanto misterioso. Forse è stato poco indagato perché chiunque ne può intuire immediatamente il fascino. Di fatto, è orfano della teoria. Guardando ai maggiori movimenti critico teorici della modernità bisogna ammettere che tutti i discorsi portano alla forma romanzo e non alla forma racconto. Da un certo punto in poi la letteratura ha coinciso quasi per intero con il romanzo e il romanzesco, e a fronte di corposi studi e indagini sul lungo, ci si è persi per strada le peculiarità del breve. A chi rivolgersi allora per trovare un appiglio critico sul racconto? Si può procedere a tentoni, e tirare fuori almeno tre ragioni - tre motivi di malia - per cui il racconto è interessante almeno quanto il romanzo. Prima ragione: il racconto è l'origine della narrativa in quanto unità di misura minima della narrazione. Il lungo contiene il breve, il breve non contiene il lungo. Un racconto non può contenere in sé dei romanzi, mentre un romanzo può e in qualche modo deve contenere al suo interno dei racconti. Seconda ragione: la nostalgia. Pensiamo al nostro romanzo preferito, quello che abbiamo amato di più in assoluto: quant'è che non lo leggiamo più? La risposta più frequente - ancorché sconvolgente - è che l'abbiamo letto una volta sola. Ma i romanzi funzionano proprio così, non ti chiedono di essere riletti. Il racconto, all'opposto, vuole permanere proprio nel momento in cui termina. Un racconto inizia dopo che è stato letto, e la sua massima aspirazione è far provare al lettore nostalgia di sé. Così, si può dire che un romanzo è fallito se viene lasciato a metà, mentre un racconto se non viene riletto. Terza ragione: l'epifania. Dacché è nata la modernità, il romanzo ha tra i suoi fini precipui la rappresentazione della realtà, il racconto invece la sua trascendenza. Il romanzo si muove dal particolare all'universale, e quindi racconta la società; il racconto si muove dall'universale al particolare, e quindi racconta l'individuo (quasi mai il cittadino).

E così anche io, pur essendomi prestato di frequente al romanzo, mi sono reso conto che negli ultimi anni avevo comunque continuato a scrivere svariati racconti con prerogative simili tra loro: erano lunghi e parlavano d'amore. L'amore di cui mi piace parlare è quello colto nella sua totalità: non solo la luce ma anche l'ombra. È venuto così quasi naturale giocare con due celebri generi letterari e titolare la raccolta Gotico rosa, dove la costruzione ossimorica indica che l'amore verrà trattato come una storia di fantasmi (e viceversa). Questo è il mio sesto libro di racconti, quindi si torna al punto di partenza, allo scrivere racconti come mania. All'epoca del mio apprendistato letterario il racconto mi sembrava un modo più onesto del romanzo. Nella sua brevità pareva ribadire l'evidenza che il suo compito fosse produrre un effetto letterario, un'impressione, e non offrire al lettore la testa della realtà. Il racconto era ai miei occhi il disvelamento degli scopi della letteratura, e in quanto tale la summa dell'arte della scrittura. All'epoca ero una specie di talebano della forma, con l'aria perennemente distratta, in realtà concentratissimo su un unico obiettivo: il sogno della letteratura.

Restavo estasiato quando Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura diceva che «La scrittura è dunque essenzialmente la morale della forma». Ero soltanto un ragazzo che scriveva rintanato nella sua casa sull'albero, un novello Cosimo Piovasco di Rondò, un barone rampante rapito dallo stesso sogno di purezza e radicalità. Ero totalmente intransigente verso me stesso - il critico più temuto - che potevo rifare lo stesso racconto anche dieci o venti volte. A ogni riscrittura imparavo qualcosa di nuovo, e lo imparavo in una maniera infallibile: il libro di testo ero io. Poi arrivò la telefonata. È quella che sogna ogni aspirante scrittore che si prenda minimamente sul serio. Lietta Manganelli, la figlia del grande Giorgio, mi avvisava che Einaudi voleva farmi fare un libro di racconti. Balbettai che non avevo abbastanza racconti pronti. E allora successe una cosa stupefacente: Lietta mi disse che avrebbero aspettato che li scrivessi. Un anno dopo uscì L'amore e altre forme d'odio.

La verità è che ci vorrebbe un racconto per celebrare gli scrittori di racconti. C'è ovviamente la celebre foto che ritrae insieme a braccetto Raymond Carver, Tobias Wolff e Richard Ford. Gli scrittori di racconti sono un po' così, si sentono membri di una società segreta, cercano di fare comunella perché in realtà sanno di essere spacciati, isolati, condannati alla solitudine. Quasi fuori mercato, a un passo dal baratro delle nicchie dedicate ai poeti e alla poesia, più che un fight club ricordano un circolo di scacchisti. La brevità fa di loro dei forzati della logica: in tre o quattro pagine non si può sbagliare neppure una mossa. Lo scrittore di racconti è sempre nudo, non si può nascondere dietro pagine e pagine di scrittura, la sua arte è impietosa, radiografica, fa risaltare i pregi come i difetti, e polverizza qualsiasi velleitarismo. Allo stesso modo degli scacchi poi, esistono delle tattiche che lo scrittore di racconti studia e introietta, alla Kafka o alla Buzzati, alla Gogol' o alla Salinger, sperando poi di aggiornarle in una variante magistrale. A differenza del romanziere, lo scrittore di racconti ambisce alla perfezione.

Può illudersi di lasciare una traccia, un segno impeccabile, visto che il suo gesto viene giocato tutto in così poche pagine. Lo scrittore di racconti è ossessionato dalla forma racconto come non capiterà mai a un romanziere con la forma romanzo. È una questione di controllo: la prima forma lo incoraggia, la seconda lo reprime. Siamo a un passo dalla religione, come si vede, ed è a questo punto che lo scrittore di racconti comincia a sentirsi una specie di carbonaro, depositario di un sapere e un linguaggio cifrato, comprensibile solo da pochi eletti. Comincerà a leggere la realtà attraverso i racconti, cosicché avremo ingorghi autostradali alla Cortázar, aperitivi alla Mansfield, matrimoni alla Bachmann, festini alla Bukowski e così via... E tutto questo per provare almeno una volta a trionfare sull'informe, sul caos, sull'entropia, carezzando l'utopia del racconto perfetto (quasi perfetto: il massimo auspicabile), ciò che un romanzo, considerata la sua natura ibrida, polimorfica e onnivora, non potrà comunque mai essere. In alto i calici dunque a questa strana razza di scrittori, a questi masochisti dell'esattezza (no, non ci può essere nessuna capacità visionaria al di fuori della precisione - parola, frase, periodo e poi daccapo), a questi instancabili fabbricatori di ingranaggi narrativi ineccepibili. Si conoscono tutti tra di loro (non importa se hanno scritto anche romanzi, anche bellissimi romanzi), la carica non decade mai, nemmeno la morte può sciogliere il patto segreto.

Io stesso ho smesso di fumare dopo aver letto un racconto di Julio Ramón Ribeyro.

Commenti