Cultura e Spettacoli

Il Nobel alla scrittrice nota solo a pochi intimi

il riconoscimento per la Letteratura è andato a Herta Muller, la scrittrice romeno-tedesca che oltre vent'anni fa denunciò il regime di Ceausescu. Sconosciuta in italia (dove ha venduto solo 2mila copie)

Il Nobel alla scrittrice nota solo a pochi intimi

«Herta Müller, dannazione, chi è costei, e perché non abbiamo in catalogo almeno un suo romanzo, un pamphlet, un’antologia di racconti, perfino una raccolta di poesie andrebbe bene, insomma una cosa qualsiasi?». È questa la domanda che ieri girava nei corridoi delle principali case editrici italiane. Già, perché Herta Müller, romena di lingua tedesca, è la vincitrice del premio Nobel per la letteratura assegnato ieri a Stoccolma dall’Accademia di Svezia. Nata nel 1953 nel Banato Svevo, regione a minoranza tedesca entrata a far parte della Romania dopo la Seconda guerra mondiale, non è esattamente una celebrità nel nostro Paese e neanche altrove.

La motivazione recita così: «Con la forza della poesia e la franchezza della prosa, descrive il panorama dei diseredati». Nel suo caso, i «diseredati» sono i perseguitati dal regime comunista di Ceausescu, pieno di attenzioni anche per l’autrice stessa, ex attivista dell’Aktionssgruppe Banat, gruppo di scrittori dissidenti. Nel 1987, dopo aver subito la censura e aver familiarizzato suo malgrado con la polizia politica, la Müller si trasferì col marito Richard Wagner (anch’egli scrittore) in Germania. Il suo ultimo romanzo Atemschaukel («L’altalena del respiro») è dedicato alla storia dei tedeschi-romeni deportati nei Gulag di Stalin sul finire della Seconda guerra mondiale: un’opera basata sui resoconti dei sopravvissuti ai campi di lavoro in Ucraina. Un’opera anche autobiografica, visto che la madre ha subito questa sorte (il padre invece aveva militato nelle Waffen SS, come un altro Nobel, Günter Grass).

La Müller ha scritto una ventina di libri, molti dedicati alla emarginazione dei tedeschi nella sua terra d’origine e all’orrore del socialismo. Proprio lei, nella conferenza stampa di ieri, si è presentata come una testimone contro tutti i regimi totalitari: «Potete anche metterci il regime nazista, i campi di concentramento, le dittature militari e le dittature religiose in alcuni Paesi islamici». Chi volesse farsi un’idea, ha una sola possibilità, il romanzo Il paese delle prugne verdi, uscito per un piccolo editore di Rovereto, Keller. Una dura storia ambientata in una Bucarest schiacciata dal comunismo, in cui la burocrazia si leva dalle scatole solo per lasciare spazio alla violenza. In passato sono stati tradotti altri due titoli, entrambi fuori catalogo, In viaggio su una gamba sola (Marsilio) e Bassure (Editori riuniti). Totale: circa 2mila copie vendute. Insomma, la Müller in Italia è quasi una sconosciuta, nonostante il suo passaggio all’ultimo Festival di Mantova in settembre. Ed è quindi la seconda volta consecutiva che l’Accademia conferisce il riconoscimento a un oggetto misterioso per la nostra editoria, almeno per quella «grande». L’anno scorso, infatti, fu incoronato il francese Jean-Marie Gustave Le Clézio, pubblicato dalla intraprendente Instar di Torino. Da domani, forse, si accenderà l’interesse, si compreranno i diritti alla prossima Fiera di Francoforte, e si manderanno in libreria i volumi con le consuete fascette («Il capolavoro del Premio Nobel 2009», etc.). Per il momento non c’è scelta. Provinciale la nostra editoria? Numero di traduzioni in vistoso calo causa crisi economica? Sopravvalutata l’autrice dall’Accademia? Sia come sia, la Müller è una scrittrice di nicchia. Questo, ovviamente, dice nulla sulle sue qualità artistiche. Ma dice qualcosa sul Premio Nobel e sui criteri con cui viene scelto il vincitore.

Nei giorni scorsi, tra i favoriti, c’erano gli americani Philip Roth e Cormac McCarthy. Noti e apprezzati ovunque, capaci di toccare temi universali, defilati e poco disposti (soprattutto il secondo) a buttare tutto in politica. Si vede che un profilo del genere non ha i requisiti giusti per piacere all’Accademia di Svezia che batte sempre lo stesso tasto, quello della sociologia applicata all’arte. Basta dare un’occhiata alle motivazioni degli ultimi tempi: «esploratore di un’umanità dentro e fuori la civiltà imperante» (Le Clézio); «cantrice dell’esperienza femminile che ha messo sotto esame una civiltà divisa» (Lessing); «ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture» (Pamuk); «spinge a entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione» (Pinter); «rivela l’assurdità dei cliché sociali» (Jelinek). Mentre Dario Fo, definito «ridicolo» da Harold Bloom, «dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Vivere sotto il regime di Ceausescu è stato terribile, la Müller lo sa per esperienza diretta, e fa benissimo a tenere viva la memoria delle infamie comuniste. Che senso ha premiarla per questo a vent’anni dalla fine del del tiranno? Forse uno solo: celebrare la caduta del Muro di Berlino. Bello.

Però la letteratura non c’entra.

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