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«È la nostra Corea. Ma Dida dov’era?»

Riccardo Signori

nostro inviato a Istanbul

«Questa è un’altra Corea». Ringhio Gattuso ci mette un attimo a far capire come la pensa. Senza nascondersi, senza tirar indietro la gamba. Pensiero in libertà che riassume tensioni e stati d’animo, la mortificazione di una squadra che non aveva mai capito, per esempio, i tormenti interisti. Stavolta il 25 maggio somiglia tanto al 5 maggio. Facce nere come quegli abiti d’ordinanza che fanno divisa e sembrano lo specchio di una stagione. Forse un presagio, ma nessuno ci aveva fatto caso. Al diavolo la scaramanzia. Ed invece ieri mattina tutto in tinta: facce peste, occhi bassi, mezze frasi, nessun sorriso, Ancelotti che si gratta la crapa, Shevchenko che si fa consolare dalla moglie. L’unica spiegazione, a domande senza risposta, è un allargare di mani.
L’aeroporto di Istanbul ha prolungato la sofferenza. Vedi gli inglesi che se la godono e se la ridono. Passa il Liverpool, Gerrard e Benitez nascosti dietro tutti e la gente canta e bacia, abbraccia e ringrazia. Passano gli italiani a capo chino e il pissi pissi diventa l’unico segnale d’attenzione. È dura vincere, ma è più dura perdere. Costacurta, che ormai sta per metter via maglie e scarpette, guarda nel futuro. «Sarà dura da superare, difficile riprendersi».
Il viaggio negli umori del Milan è il viaggio nello scoramento di una squadra che non sa dire «Perchè?». Un po’ come quei tifosi burloni che, fuor dell’aeroporto di Malpensa, nella calura pomeridiana, hanno intonato un coretto che pareva un venticello fresco. «Perchè? Perchè? 3 a 1, 3 a 2, poi 3 a 3? Perchèèè....». Sberleffi, quando due anni fa erano ovazioni. E peggio gli ultras delle brigate, sbarcati alla dogana in contemporanea ai giocatori. Tante domande, qualcuna impertinente. Richieste di spiegazioni che, alla fine, hanno scocciato uno tipo tranquillo come Maldini. Ingenerosità del tifo. Ma quei sette minuti rischiano di restare un marchio anche se i giocatori e Ancelotti hanno già fatto il fioretto dei buoni sentimenti. «Ricominciamo subito a pensare alla Champions. L’anno prossimo ci riproviamo», l’idea di Cafu.
Già, gli errori? Come, quando, dove, perchè? Tutte domande corse nella notte. Dida non deve aver dormito sonni tranquilli. Ultimamente dorme anche in campo. I compagni lo apprezzano, lo coccolano ma poi ti scappa sempre la parolina. «Aveva battezzato fuori il colpo di testa di Gerrard», ha ammiccato Stam, che ha già tanti peccati da scontare per la parte sua. Idem Gattuso: «Non voglio certo incolpare Dida, ma quando prendiamo gol con un tiro da 40 metri, cosa ci dobbiamo dire?». Vero. E cosa dire quando Gerrard stacca di testa tutto tranquillo? «È rimasto in area da solo per una decina di minuti». Gattuso forse esagera sul numero dei minuti. Ma non sul fatto. Ed anche sul rigore avrebbe qualcosa da dire: «Ho appena toccato Gerrard. Non così forte da farlo cadere». Chiacchiere colte qua e là che mettono insieme scoramento e realtà, le bucce di banana sulle quali è scivolato il Milan. E il colpo è stato pesante. «Qui non ci riprendiamo più». Il pensiero corre nelle teste e sulla lingua.
La mattina all’aeroporto è un rifugiarsi dietro occhiali scuri. Mentre lo sponsor ha ripiegato le magliette preparate per la festa e le ha archiviate alla voce: collezione. Nelle storie dei ritorni del Milan questo è stato uno dei più stordenti. Perdere o vincere, poco conta.

Buttare una coppa così, ha fatto sentire tutti più vecchi.

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