Cronaca locale

«Papà Ascari, l’asso di Milano che sbancò mondo e mondiali»

Luigi Mascheroni

Antonio Ascari in realtà lo chiamano tutti Tonino, per distinguerlo dal nonno, omonimo, un «asso» morto a Montlhéry, nel Gran Premio di Francia del 1925 «mentre - strillò il giorno dopo la Gazzetta - precedeva con meravigliosa audacia tutti i concorrenti». Tonino, che negli anni ’60 è stato anche lui un ottimo pilota e poi un ottimo commerciante di automobili («lo siamo da tre generazioni»), oggi vive a Gazzada («Me ne sono andato da Milano trent’anni fa, per far vivere le mie figlie nel verde»), incontra gli amici - e i giornalisti - in un bar di Varese di fronte a un gommista, ha lo stesso fisico imponente e i modi sornioni di papà, e 64 anni. Ne aveva 13 quando il padre, Alberto - in quel momento l’italiano più famoso nel mondo - morì, come il primo Ascari, su una pista d’automobilismo: a Monza, nel 1955. Di lui, Enzo Ferrari, diceva: «Quando guidava non poteva essere sorpassato tanto facilmente, anzi di fatto era impossibile farlo».
Si dice che Alberto Ascari - l’ultimo campione del mondo italiano di F1, ’52 e ’53, tutte e due le volte su Ferrari, il volante più veloce dell’epoca insieme all’imprendibile Juan Manuel Fangio - poteva perdere il controllo della macchina, ma non la calma. La stessa impressione che dà il figlio Tonino. «Mio padre era di una tranquillità fuori dal comune, in casa come in corsa. Un sistema nervoso eccezionale. Ma anche nella vita di tutti i giorni era una persona serena, calma, posata. Tanto che quasi non ce ne accorgevamo di chi fosse realmente papà: andava e veniva per il mondo, vinceva, era famoso, ma tutto questo in casa non entrava...». E la paura, quella sarà entrata qualche volta? «Io non ne avevo, ero piccolo. Mamma Mietta forse sì, ma relativa. Papà faceva una corsa dietro l’altra e non è mai successo niente di grave, fino all’incidente voglio dire. Quello del pilota è un mestiere pericoloso sì, ma se fatto in maniera “normale”, come un lavoro qualsiasi, non rappresenta più rischi di qualsiasi altro. È la passione che ti porta a farlo male, che ti acceca, che ti fa strafare: se stai per vincere una corsa cerchi di evitarli, i guai. Chi va forte si fa male. Aveva ragione Fangio: “Vince chi va più piano”».
Ascari, però, piano non è mai andato. Iniziò a correre (e a vincere) in motocicletta. Poi, dopo la guerra, in auto, infilò una serie di trionfi targati prima Ferrari, poi Maserati e infine Lancia: due campionati del mondo, 13 Gran Premi, una Millemiglia: «fu nel ’54, il suo capolavoro e il suo orgoglio: vincere la Millemiglia, la corsa più combattuta e difficile con il pubblico in delirio e la stampa impazzita, significava realizzare il sogno di ogni pilota».
E lontano dalla pista, com’era Alberto Ascari? «Una persona modesta: quando andavamo a fare un giro nel quartiere attorno a casa nostra, in corso Sempione, tutti lo fermavano, lo salutavano, ma lui non ha mai pensato che stava facendo qualcosa di eccezionale. Mentre invece, come guidatore, era un disastro». Scusi? «Sì, papà quando non era in gara guidava malissimo: troppo veloce, azzardi, sorpassi. Mi ricordo una volta, d’estate, stavamo andando a Santa Margherita Ligure. Papà si mette a superare una coda lunghissima di macchine in galleria. Appena usciamo, polizia stradale. Paletta. Fermi tutti. Erano già pronti a portarci via l’auto, per fortuna mio padre durante la guerra era stato poliziotto motociclista - parentesi: papà non era fascista: entrò nella Milizia per evitare il fronte, e poi il quartiere generale, a Milano, era duecento metri da casa - comunque, dicevo: alla fine non ci hanno fatto niente, gli hanno solo detto: “Ma Ascari, proprio tu: che esempio dai?”».
Ottimo, a giudicare dai risultati. Il figlio, ad esempio, venne su come il padre: stessa passione, stesso sangue freddo. «Non mi portava mai a vedere le sue corse, però una volta, sarà stato il ’53, mi fece provare una Lancia preparata per la Carrera Panamericana, una gara di duemila miglia dal Messico alla Terra del fuoco. Beh, tornato dal Sud America mi dice: “Tonino, andiamo a fare un giro. Mi portò sulla Milano-Torino e la tirò a 260 all’ora». Spaventato? «Mah, guardi, quando vai dritto non c’è molta differenza tra i 100 o i 300 all’ora. Non è la velocità che dà particolari sensazioni; è la curva, o un percorso difficile, un sorpasso... quello sì. Ma se vai dritto, non succede nulla».
Sui circuiti ovviamente no, ma nella vita Alberto Ascari rigò drittissimo: padre e marito esemplare, mai uno scandalo, mai una bizza, non un vizio, a parte forse la gola, visto che lo chiamavano Ciccio («No, guardi, veramente solo i giornalisti lo chiamavano così. In famiglia mai, e neppure gli amici. Tanto più che si innervosiva: per uno che ingrassava respirando, sentirsi dire Ciccio...»). Era una star, senza darlo a vedere. «Ed era amatissimo: a Milano lui conosceva tutti e tutti conoscevano lui. E a parte le auto, non aveva passioni. Il massimo dello svago era parlare di motori con i suoi amici, in un bar di corso Vercelli: lui e tutti gli altri piloti “disperati”: i fratelli Villoresi, l’Emilio e il Gigi, il Castellotti...». Già, l’Eugenio Castellotti. Alberto Ascari, morì a Monza, nel ’55 (giusto quattro giorni dopo essere finito in mare, e ripescato da un sommozzatore, nel Gran Premio di Montecarlo), mentre provava la Ferrari dell’Eugenio. «È andata così: papà era lì a vedere le qualificazioni, con ancora i cerotti sul naso per il volo di Montecarlo, quando il Castellotti, pilota della Ferrari, gli dice: “Alberto, questa macchina mi sembra un po’ ballerina, provala tu, e poi mi dici...”».
Non disse più niente, Ascari. All’uscita da una curva, al terzo giro, in camicia e pantaloni e senza il suo mitico casco azzurro, lasciò la strada d’asfalto e imboccò quella della leggenda. Ai suoi funerali, a Milano, partecipò una folla immensa. Alle colonne della chiesa di San Carlo al Corso appesero, fra drappi neri, una preghiera: Accogli, o Signore, sul traguardo l’anima di Alberto Ascari. Quel giorno, recitano le cronache, piazza Duomo era così silenziosa che si sentivano i telefoni squillare a vuoto nelle case.
«Io e mia sorella il giorno che morì fummo caricati in macchina e portati dai Lancia, a Torino. Rimanemmo nella villa per quindici giorni, senza che nessuno ci dicesse niente. Poi, una mattina, vidi in un’edicola la locandina di un giornale con un titolo a tutta pagina: “Ecco come è morto Ascari”... c’erano delle foto... è stato pesante, mi creda. Qualche giorno dopo, mia mamma mi chiama da parte e mi dice: “Tonino, ti devo parlare...”. “Lo so già quello che mi devi dire, mamma”».
Chiamarsi Ascari. «Quando mi imbatto nei vecchi filmati di papà li guardo sempre, anche se li so a memoria. Ma mi fa piacere se a vederli sono le mie figlie o i nipoti. In qualche modo, quelle immagini trasmettono dei valori, nel senso che ti dicono chi sei, da dove vieni. Servono a farti capire cosa ti puoi permettere e cosa no.

Prenda me: col mestiere che faccio, e il nome che porto, se vendo a qualcuno una macchina sbagliata, dopo due minuti lo sanno anche a Tokyo. Non so se mi capisce: nella vita bisogna stare in pista». Che detto da un pilota, figlio di pilota, ha il vago sapore della sentenza.

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