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Anche i giuristi in campo contro il concorso esterno

Fiandaca ammette che si deve intervenire: "Ma non adesso". E critica le vittime: "Non decidono loro"

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È come se a parlare di calcio fosse Bearzot. Davanti a un intervento di Giovanni Fiandaca, giurista palermitano, da decenni il docente di diritto penale più autorevole d'Italia, in genere nessuno osa replicare: se non altro per paura di fare brutta figura. Il problema è che ieri Fiandaca, intervistato da Repubblica, non solo ha detto che sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa - sul quale si accapigliano da sempre garantisti e pubblici ministeri, e sul quale la polemica negli ultimi giorni si è fatta rovente - «un intervento è necessario» perché esiste il «principio costituzionale della prevedibilità della distinzione tra condotte lecite e illecite». Fiandaca va più in là, e se la prende con i parenti di vittime eccellenti di mafia - come la sorella di Giovanni Falcone - che in questi giorni vengono intervistati ripetutamente, e utilizzati dai giornali per esorcizzare le proposte di riscrivere il reato di concorso. «Uno schiaffo alla memoria di Giovanni» così Maria Falcone ha definito il progetto di riforma annunciato dal ministro Carlo Nordio. Contro questi interventi Fiandaca ha parole di durezza inusitata: «Il potere di fare leggi - chiede - è forse bloccato dal paradigma vittimario che ferma la libera determinazione di fare leggi scritta nella Costituzione? É forse scritto nella Carta che il parere delle vittime può bloccare il Parlamento?».

Sono parole che ieri fanno irruzione nel dibattito, e che fanno pendere decisamente la bilancia a favore di chi ritiene che il reato così come è scritto non sia difendibile. L'unica cautela di Fiandaca è quella sui tempi: invita a aspettare, a lasciare che il clima sia più sereno, perché oggi «inserire questa modifica aggraverebbe la già grave politico-istituzionale determinata dal conflitto tra politica e giustizia». Ma che la direzione in cui andare sia quella, per Fiandaca è indubbio. E il suo assist viene raccolto al volo da Giorgio Mulè, vicepresidente forzista della Camera, tra i più convinti assertori della necessità di mettere mano al reato: «Il rispetto che si deve ai familiari delle vittime - dice Mulè al Giornale - e il dovere della memoria non possono e non devono mai sovrapporsi a chi fa le leggi. Perché altrimenti verrebbero messi in discussione molti di quei principi in cui le stesse vittime hanno creduto».

Fiandaca è severo anche con un altro argomento assai usato in questi giorni, ovvero il rischio che un intervento legislativo danneggi i processi già in corso: «Il potere del Parlamento - dice -non può essere inibito dal fatto che alcuni processi possano subire influenze da una nuova legge, perché se fosse così nessun reato potrebbe essere cambiato. Capisco i magistrati che vanno in allarme e preferiscono disporre di uno strumento utile e servizievole com'è il concorso esterno nella versione attuale. Ma c'è un'altra anima della giustizia penale che esige di rispettare i principi costituzionali della riserva di legge e della sufficiente determinatezza della fattispecie». È proprio questa «sufficiente determinatezza» che manca, e per questo è necessario mettere mano al codice, non per indebolire la lotta alla criminalità organizzata ma per renderla più netta ed efficace: «La modifica può contribuire a rendere più chiare - dice Fiandaca - e solide le imputazioni accrescendo la possibilità di ottenere condanne in giudizio». Non va fatta subito, insomma, ma va fatta, anche se l'accusa di concorso esterno è oggi per le Procure uno «strumento servizievole».

O forse proprio per questo.

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