Politica

Quello che le toghe non vedono

Piccola scommessa, vinta in partenza: neanche adesso che glielo dice un organismo europeo al disopra di ogni sospetto, i magistrati italiani si rassegneranno a quel che all'Europa pare ovvio.

Quello che le toghe non vedono

Piccola scommessa, vinta in partenza: neanche adesso che glielo dice un organismo europeo al disopra di ogni sospetto, i magistrati italiani si rassegneranno a quel che all'Europa pare ovvio. E cioè che non può funzionare un sistema dove un giudice passa in politica, si schiera con un partito contro altri partiti, se ne sta per un po' in Parlamento o a fare il sindaco, e poi come se nulla fosse torna a indossare la toga e ad amministrare la giustizia in nome del popolo. Un sistema del genere - ovvero quello che regna in Italia - fa sì che la giustizia appaia amministrata in nome non del popolo ma del partito, della fazione, della corrente ideologica di cui - gettando la maschera dell'imparzialità - quel magistrato ha rivelato di fare parte. È un sistema che riverbera l'ombra del dubbio non solo sulle decisioni prese dal magistrato dopo il ritorno in toga, ma anche su tutto il suo lavoro passato, che viene inevitabilmente riletto alla luce delle sue disvelate opinioni politiche. Di casi simili sono pieni gli annali, e coinvolgono indistintamente magistrati di destra, di centro e di sinistra: cosicché le correnti della magistratura sono risultate compatte nel fare barriera (nei fatti, se non a parole) contro qualunque tentativo di riforma. L'esempio più vistoso delle grottesche conseguenze dell'andirivieni tra toga e politica è di appena tre giorni fa, e ne ha ben parlato il consigliere del Csm Nino Di Matteo: la storia di Donatella Ferranti, magistrato, che viene eletto nelle liste del Pd, diventa presidente della commissione Giustizia della Camera, e in questa veste attraverso Luca Palamara cerca di orientare l'esito di due nomine importanti; poi torna come se niente fosse a fare il magistrato in Cassazione ma continua a trattare con l'amico Palamara nomine delicate, mettendo a frutto i contatti acquisiti quando faceva il deputato, salvo poi trincerarsi dietro l'immunità quando saltano fuori le sue chat. Che questo sia il sintomo di un sistema malato è sotto gli occhi di tutti. E ancora più sintomatico è l'ostruzionismo della magistratura organizzata ai tentativi di porre un freno all'andazzo. Appena un mese fa, il 30 aprile, il segretario dell'Anm Salvatore Casciaro accusa la riforma Cartabia - che cerca di bloccare le «porte girevoli» - di «eccesso di irragionevole rigore», ipotizzandone addirittura la incostituzionalità. Mettere un alt all'andirivieni per l'Anm violerebbe i diritti politici dei magistrati, che essendo cittadini come tutti dovrebbero poter fare politica senza venire penalizzati. Ma i magistrati non sono cittadini come tutti, qui sta il problema. Lo erano fin quando non hanno vinto il concorso, che ha dato loro accesso a una carriera di agi, di intangibilità, di avanzamenti automatici di carriera impensabili per chiunque altro. Privilegi che hanno come unico senso liberarli dai condizionamenti che il bisogno reca con sè, consentire loro di esercitare la giustizia seguendo solo la legge.

Ma quale condizionamento peggiore c'è della obbedienza di partito, dei lacci che i magistrati si scelgono da soli quando si tolgono la toga, se la rimettono, se la ritolgono? Vogliono essere liberi, ma solo fin quando gli fa comodo.

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