Politica

Contrordine dagli Usa sulla caduta di Draghi: "Vince la democrazia"

Il "New York Times" rettifica il tiro dopo gli allarmi sul "futuro tetro dell'Italia"

Contrordine dagli Usa sulla caduta di Draghi: "Vince la democrazia"

La grande differenza tra il giornalismo statunitense e quello dell'Europa, soprattutto latina, è che non vi può esistere un giornale-partito. Anche quando un quotidiano adotta una linea molto radicale e persino settaria, lascia comunque spazio, sulle sue colonne, a opinioni che la contrastino. Cosi un giornale diventato molto di sinistra, e assolutamente anti-trumpiano, come il «New York Times», ospita alcuni editorialisti conservatori, persino vicini all'ex presidente - anche se nello spazio «Guest», cioè ospiti.

È il caso di Cristopher Caldwell, pregevole saggista conservatore, autore di diversi libri, collaboratore fisso del giornale e anche un po' conoscitore dell'Italia. Caldwell contesta implicitamente un altro «Guest», di qualche giorno fa, David Broder, che aveva dipinto un'Italia pronta a cadere, un secolo dopo, di nuovo sotto il tallone fascista. Nessun fascismo, replica implicitamente Caldwell, solo il risultato delle scelte degli elettori italiani, se il voto confermerà i sondaggi. Ma soprattutto, il saggista contesta un report di J P. Morgan, secondo il quale Draghi sarebbe stato abbattuto da un «colpo populista». Ma quale era, si chiede Caldwell, la credibilità di Draghi? In una democrazia, scrive l'autore «la credibilità si ottiene attraverso un mandato popolare». Quello che Draghi non ha mai cercato. Al contrario, il mandato lo possedevano le forze politiche che, legittimamente secondo Caldwell, hanno privato di fiducia l'esecutivo. Fin qui il commento del giornale newyorchese.

Che ci spinge ad alcune considerazioni. La prima, che non bisogna confondere un articolo di giornale con la posizione ufficiale del quotidiano, né tantomeno credere che essa rifletta in qualche sorta le opinioni del governo americano. Quando si scrive: «L'America ha paura di Giorgia Meloni» e poi si cita un pezzo di David Broder, si compie un'operazione truffaldina. Allo stesso modo, sarebbe sbagliato ora vedere nel commento di Caldwell come il segnale di chissà cosa: è la democrazia pluralista del giornalismo, che negli Stati Uniti per fortuna funziona ancora.

La seconda considerazione riguarda la cultura politica statunitense. Sia democratico o repubblicano, nessun americano riuscirebbe a concepire l'idea di un governo guidato da una personalità che non sia stata, prima selezionata attraverso primarie, poi eventualmente eletta dall'intero corpo elettorale. Vale per i sindaci, per i governatori degli Stati, per i parlamentari, per il presidente della Repubblica, e anche per certe figure di magistrati. Per questo non mi ha sorpreso leggere ieri mattina questo pezzo, critico nei confronti non tanto di Draghi, quanto dell'idea di governo non elettivo. E se Caldwell, vicino a Trump, calca la mano, descrivendo un Draghi succube della Ue, qualsiasi democratico o liberal statunitense condividerebbe il principio che la legittimità politica deriva dal voto.

Più discutibile quello che scrive Caldwell sulla credibilità: aver vinto le elezioni non la conferisce ipso facto, perché, lo sappiamo da Platone, il crinale tra democrazia e demagogia è sempre molto sottile - e il caso Trump è di scuola.

L'ultima considerazione: Draghi, molto legato alla cultura politica statunitense, probabilmente condivide l'idea che la sua esperienza, pur cosi importante e preziosa, sia stata un'anomalia. Ora ce lo ricorda pure il «New York Times»; lasciamo quindi che siano gli elettori a decidere e poi, nel caso, opponiamoci duramente al vincitore.

Ma non più governi tecnici, la vera tara storica del nostro paese.

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