Economia

De Benedetti e quegli imbrogli per evitare il crac dell'Olivetti

Negli anni '90 mise a bilancio 123 miliardi inesistenti e fu condannato. Ora finge di dimenticare: "È irrilevante"

De Benedetti e quegli imbrogli per evitare il crac dell'Olivetti

Argent de poche, gli spiccioli che ti ballano in tasca e che nemmeno ti ricordi di avere. Questo, per Carlo De Benedetti, dovevano essere i 123 miliardi di lire che tra il 1994 e il 1996 la sua Olivetti mise a bilancio, e che invece non esistevano nemmeno sulla carta. C'erano invece fondi di magazzino, antiquariato tecnologico ormai invendibile, che nei bilanci di Ivrea venivano fatti figurare come se fossero già venduti. Un'operazione colossale di maquillage dei bilanci di una azienda già pericolante? No, una inezia, un dettaglio così irrilevante che l'Ingegnere se l'era dimenticato. E si era pure dimenticato di essere stato, per quei 123 miliardi, inquisito, processato e condannato. Ma quando nel 2015, nel processo per diffamazione che aveva intentato a Marco Tronchetti Provera gli chiesero se i bilanci Olivetti fossero mai stati messi in discussione, il padrone di Repubblica insorse con la veemenza dell'orgoglio ferito: «No, giammai!». E quando l'avvocato di Tronchetti gli tirò fuori la sentenza di condanna, sembrò cadere dalle nuvole. «Era una cosa talmente irrilevante che me la sono dimenticata».

Una bazzecola. Però, in questi giorni in cui l'Ingegnere si erge ad alfiere della moralità altrui, è interessante andarsi a rileggere quella vecchia e dimenticata sentenza del tribunale di Ivrea. E soprattutto è interessante collocarla in quegli anni difficili, in cui il salvataggio della gloriosa Olivetti da parte dell'ex manager della Fiat sembrava trasformarsi in un disastro, al punto che in Parlamento si parlava di nazionalizzazioni e di commissioni d'inchiesta. Il bilancio del primo semestre del 1996 evidenziava un passivo di 440 miliardi, una voragine. Per salvarsi la faccia, De Benedetti fece uno dei suoi rari sbagli: chiamò in Olivetti un direttore generale proveniente dalla Rai, Renzo Francesconi, fama di mastino dei conti. Presenza lampo: a luglio 1996 Francesconi arriva a Ivrea, a settembre si dimette precipitosamente raccontando che i bilanci che si è trovato davanti sono uno più fasullo dell'altro. Il titolo crolla in Borsa. Si muove il governo, preoccupato che il crollo dell'Olivetti si ripercuota sul sistema bancario, che ha finanziato l'avventura di De Benedetti con quasi duemila miliardi di lire. Per l'Ingegnere, che in quel momento ha ancora sul groppo la condanna per il crac del Banco Ambrosiano (l'assoluzione in Cassazione arriverà due anni dopo) rischia di essere la botta finale.

Ecco, è in questa fase di lotta per la sopravvivenza che qualcuno a Ivrea decide di sistemare i bilanci alla bell'e meglio. Di tutte le accuse di Francesconi, è l'unica che porterà a una condanna: destinata a venire inghiottita qualche tempo dopo dalla riforma delle norme sul falso in bilancio. De Benedetti anche stavolta sembra protetto da quello che gli americani chiamano l'effetto Teflon: le accuse gli scivolano addosso, non gli restano attaccate.

Ma i fatti, anche in questo caso, restano nero su bianco, incontrovertibili, tanto che a Ivrea nel 1999 lo stesso De Benedetti rinuncia a difendersi in aula e chiede di patteggiare la pena. Lo fa personalmente, con una procura autografa inviata al suo avvocato Gilberlo Lozzi, e mettendosi d'accordo con la Procura per una condanna a tre mesi di carcere, convertita (come consente la legge) in una multa da 51 milioni di lire. E questi sì che sono spiccioli, per uno degli uomini più ricchi d'Italia.

Ma i fatti, come nel caso dell'Ambrosiano, sono meno ondivaghi delle sentenze. Ed eccoli, cristallizzati nella sentenza che il 14 ottobre 1999 dichiara De Benedetti colpevole di falso in bilancio, insieme al suo ex braccio destro Corrado Passera. Nell'imminenza della chiusura dei bilanci, venivano indicate come crediti le vendite di macchinari che non potevano essere consegnati, per il semplice motivo che non esistevano. Al loro posto, veniva simulata l'uscita di giacenze di magazzino.

«Il fenomeno era complesso e sofisticato, prevedeva anche una modifica del sistema informatico per l'evasione degli ordinativi», in un «disegno fraudolento diretto a fornire un quadro fuorviante circa l le condizioni economiche della società». Un imbroglio, per usare una parola oggi cara a Carlo De Benedetti.

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