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Il genio che solcava l'universo a bordo di una sedia a rotelle

Ha rivoluzionato la scienza ed è stato un'icona popolare. Il miracolo: comunicare come nessuno. Anche senza voce

Il genio che solcava l'universo a bordo di una sedia a rotelle

Una mente capace di percorrere distanze siderali, di indagare i meandri dello spazio tempo, di provare a unificare teorie scientifiche inconciliabili. Un corpo inchiodato dalla malattia, membra che diventano sempre più pesanti, una prigione di carne in cui, però, continuano a guizzare due occhi vivacissimi, occhi che si ribellano a un destino (ma in fisica il destino non esiste) bizzarro e crudele. Basterebbe questa dicotomia feroce a spiegare perché Stephen Hawking (1942-2018) è diventato l'icona della scienza contemporanea, un ricercatore-simbolo che, come riconoscibilità, è secondo solo a Einstein.

Hawking ha incarnato tutte le caratteristiche del genio declinato per una società mediatica. Sia chiaro, era capace di una visione d'insieme, di una capacità di analisi, anche matematica, che influenzerà la ricerca per decenni. Entrato all'University College di Oxford, a 17 anni (1959), trovò «ridicolmente facile» ottenere la laurea in Fisica con lode, per tre anni non studiò mai più di un'ora al giorno. Ma gli fu più che sufficiente per accedere al corso di cosmologia a Cambridge. E fu proprio lì che, nel 1963, si manifestarono i primi sintomi della malattia degenerativa dei moto neuroni. I medici gli predissero due anni di vita, fornendo l'ennesima prova della fallibilità della scienza. Ma la sensazione della morte incombente si trasformò in una molla propulsiva. Hawking passo dall'essere un intelligentissimo indolente all'essere il genio stacanovista che è rimasto per il resto della vita. Tema del resto su cui ha sempre scherzato: «Si dice che scienziati e prostitute vengano pagati per fare quello che loro piace». Entro il 1971 aveva già scritto uno dei più importanti teoremi sulle singolarità gravitazionali (leggasi buchi neri) e lo spazio tempo. Da lì le sue intuizioni (sviluppate collaborando con Brandon Carter e James Barden) portarono, rapidamente, alla nascita di quella rivoluzionaria branca della scienza che è la Termodinamica dei buchi neri. Lavori che hanno fatto fare un salto in avanti (ma che non gli hanno mai valso il Nobel) alla cosmologia quantistica.

Ma su questa grande capacità teoretica si è innestata un'altra dote di Hawking, la capacità divulgativa. Altri validi scienziati, come i sopra citati Carter e Barden, o James Hartle, o Roger Penrose o l'italiano Gabriele Veneziano non sono entrati nel cuore del grande pubblico. Hawking, a partire dalla pubblicazione nel 1988 del suo bestseller, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo (di cui nelle pagine seguenti vi presentiamo un estratto), è entrato nel cuore della gente per la sua capacità di spiegare con parole semplici concetti difficilissimi. E non solo i concetti, la passione dietro i concetti. Questo anche a colpi di battute rimaste nell'immaginario collettivo. Come quando liquidò così la concezione dell'universo di Einstein: «Sbagliò quando disse: Dio non gioca a dadi. La considerazione dei buchi neri suggerisce infatti non solo che Dio gioca a dadi, ma che a volte ci confonda gettandoli dove non li si può vedere». Risultato? Hawking, inteso come icona, è finito citato in serie televisive come Big Bang Theory - «Stephen Hawking è un genio, in più parla come un robot. Un amico migliore non potrebbe esistere» - o I Simpson e gli è stato dedicato addirittura un film, La teoria del tutto (dove è interpretato da Eddie Redmayne). E qualche volta è anche stato tirato per la giacchetta. Per molti, a esempio, era un simbolo dell'ateismo, a partire da affermazioni come questa: «Poiché esistono leggi come quella della gravità, l'universo può crearsi e si crea dal nulla... Non è necessario invocare Dio...». Eppure Hawking era membro della Pontificia accademia delle scienze, tanto che ieri è intervenuto Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della medesima: «Tutti dicono che era ateo ma io posso affermare che non lo era».

Quando lo scienziato diventa icona pop viene banalizzato come qualunque altra icona pop.

E ci vuole del tempo prima che il glamour si depositi, lasciandoci discernere il vero lascito culturale.

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