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Giulia e Luca, tra i letti dei piccoli "fine vita"

Nel centro Vidas per i bambini. Le famiglie e le scelte condivise: "Date pace ai nostri figli"

Giulia e Luca, tra i letti dei piccoli "fine vita"

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«Vi prego, aiutateci a dare pace alla nostra bambina». Si presentano al centro Vidas di Milano con un filo di voce. Troppo difficile dire una frase del genere ai medici. Ma i neo genitori sono da subito ben consapevoli che la loro piccola Giulia non può andare avanti così.

La bimba, nata con una patologia genetica all'encefalo - non diagnosticata durante la gravidanza - non vede, non sorride, non è in grado di seguire la voce, di mangiare, non sa nemmeno alternare il sonno alla veglia, convive con una miriade di crisi epilettiche ogni giorno.

La richiesta di aiuto viene accolta e comincia un percorso delicatissimo e lungo, in cui vengono coinvolti medici, psicologi, il comitato bioetico. Ogni scelta viene soppesata e condivisa. Per valutare quale sia quel confine sottile tra vita e sopravvivenza (al di là dei protocolli medici), per capire quale sia il limite etico di una terapia, quando dire basta, con che modalità accompagnare un bambino alla morte senza dolore fisico. Un po' come per la piccola Indi ma senza riflettori e, probabilmente, con una fiducia medico-famiglia più salda.

«L'obbiettivo non è ritardare o rallentare il percorso ma dare la dignità che la richiesta di due genitori merita. Per deresponsabilizzarli e per non incarcerare la piccola in una sopravvivenza così dolorosa» spiega Federico Pellegatta coordinatore infermieristico della Casa sollievo bimbi. «Il percorso è durato molti mesi - aggiunge la direttrice socio sanitaria di Vidas, Giada Lonati - Ma è un'esperienza che si fa una sola volta nella vita e la vogliamo affrontare nel più delicato e dignitoso modo possibile. Con il tempo necessario. Finché l'équipe medica e la famiglia non arrivano a sentire che anche la sospensione dei supporti vitali fa parte del percorso di cura. E allora è difficile che un padre arrivi a pronunciare le parole di rabbia del papà di Indi. Non prova quei sentimenti, qui un padre fa un altro tipo di percorso».

A onor del vero, basta entrare nel centro milanese («Non siamo un mortificio» spiegano a più riprese gli operatori sanitari) per respirare vita e umanità, non di certo morte. Ci sono colori, luce, mini appartamentini in cui le famiglie possono trovare il sapore della casa e costruire piccoli momenti da ricordare. Quando arriviamo è in corso una festa di compleanno. Anzi, di non compleanno. Perché il festeggiato, un ragazzino di circa 10 anni, senza cittadinanza, non sa con certezza il giorno in cui è nato. Paradossalmente sa quello in cui morirà, più o meno vicino. Ma ora non ci pensa, ha tutto il reparto attorno: dottoresse col cappellino con l'elastico, dottori clown, infermieri. E per un po' tutto è più dolce.

La «casa» accoglie i bambini inguaribili - l'85% non oncologici - e li prende in carico assieme alle loro famiglie, seguendoli per una media di 44 mesi ma spesso senza nemmeno fare in tempo a dare un nome alla loro malattia tremenda. Tra gli ultimi 90 casi, solo in 4 occasioni lo staff ha deciso di ricorrere al comitato etico, per disallineamenti con la posizione della famiglia o all'interno della stessa squadra di medici. Come nel caso di Luca, per cui la mamma non ha accettato l'idea di vederlo morire e ha chiesto di dimetterlo. «Oltre all'interesse del bambino, che è la priorità, affianchiamo i suoi genitori - spiega Igor Catalano, responsabile medico dell'area pediatrica - sappiamo bene che la perdita di un figlio è una ferita che mai si rimarginerà e quindi tuteliamo anche chi sopravvive alla tragedia. Non solo legalmente ma anche psicologicamente».

Perché sui vocabolari di lingua italiana non esiste una parola per definire un genitore che perde un figlio. Non è un vedovo, non è un orfano. Non è qualcosa di dicibile, così come non lo è il suo dolore. Ma va gestito e aiutato.

Come accaduto con i genitori di Giulia che oggi, con il cuore spaccato a metà, sono riusciti ad avere un altro bambino e, dopo tanto patire, hanno conquistato la loro fettina di felicità.

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