L'analisi del G

La giustizia riparativa nuovo business delle coop. Ma così la riforma rischia di essere un bluff

A pochi mesi dal via, l'istituto previsto dalla Cartabia mostra tutti i suoi limiti: le strutture non ci sono, il personale è risicato e serve la formazione perché mediatori e avvocati sono stati fatti fuori

La giustizia riparativa nuovo business delle coop. Ma così la riforma rischia di essere un bluff

C'è un nuovo business disegnato su misura per le coop. Si chiama giustizia riparativa, una riforma partita lo scorso 30 giugno 2023 grazie all'ex Guardasigilli Marta Cartabia per potenziare il percorso (gratuito) «dal dolore alla riconciliazione», con una forma di risarcimento economico o morale, con l'intento di svuotare le carceri e ristabilire (finalmente) il principio costituzionale di rieducazione e reinserimento sociale del condannato. «Ci si prende cura del reo e della vittima, con l'esperienza del pentimento e delle scuse, per riparare concretamente e moralmente al pregiudizio inferto, magari riservandosi il privilegio del perdono», scrive Angelo Monoriti, docente di Negoziazione alla Luiss Guido Carli su Dall'ordine imposto all'ordine negoziato (Giappichelli, 2023) in cui descrive la giustizia riparativa come una forma di vendetta «buona» a fronte di una vendetta «cattiva», cioè la pena, che ha sostituito il diritto alla ritorsione della vittima.

Nelle scorse settimane il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia ha pubblicato un protocollo operativo che farà scuola. «È una rivoluzione culturale», dice. Non senza polemiche, al protocollo avrà accesso Davide Fontana, l'uomo che ha ucciso e fatto a pezzi Carol Maltesi, ma anche Alessandro Impigniatiello (che a Senago ha ammazzato la fidanzata incinta Giulia Tramontano). «Può offrire alternative diverse e più efficienti da quelle proprie di una sentenza semplicemente punitiva - sostiene il pm Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria e segretario nazionale di Md - ma la norma si preoccupa molto dell'interesse dell'autore del reato mentre è meno attenta ai diritti della persona offesa del reato, che rischia una vittimizzazione secondaria in un percorso ricco di insidie e altre sofferenze».

Pochi mesi dopo la sua entrata in vigore, con già diverse richieste presentate dai detenuti, questa riforma - al netto di una «cattiva interpretazione nella rappresentazione mediatica» per usare le parole di Roia - mostra tutti i suoi limiti e rischia di essere un bluff pur di accontentare gli appetiti incrociati di chi vede in questa riforma (soprattutto per la formazione delle nuove figure richieste) un business su cui mettere le mani.

Le questioni sul tavolo sono fondamentalmente tre: le strutture, tutte da individuare; i professionisti abilitati a seguirle; la valanga di istanze attese: vale astrattamente per qualunque reato, dalle indagini alle sentenze (persino in caso di proscioglimento) e anche in assenza di consenso della vittima. L'obiettivo è il sovraffollamento carcerario, ma anche la rieducazione del condannato. Un'istanza che affonda le sue radici nella nostra Carta, come spiega l'avvocato Ivano Iai: «Il tabù della potestà punitiva esclusiva dello Stato cede di fronte alla capacità umana di ascoltarsi, mettersi nei panni dell'altro, ricercare soluzioni condivise che riparino anche i danni più gravi alla persona. E si tratterebbe di una risposta efficace e pienamente attuativa del principio di rieducazione contenuto nell'articolo 27 della Costituzione». Oggi ci sono 60mila detenuti per 51.275 posti, tanto che per la ristrutturazione di alcune strutture (Forlì, San Vito al Tagliamento, Brescia, Firenze) sono arrivati 166 milioni. La sinistra invece punta sulle «case territoriali di reinserimento sociale», strutture alternative per chi deve scontare fino a 12 mesi, guarda caso proprio gli 8mila detenuti in eccesso secondo Pd, Avs e +Europa.

Ma al netto del dibattito sul significato della riforma e delle ricadute sulle carceri, a chi sarà affidata la gestione dei programmi? Ai Centri di giustizia riparativa, che oggi però non esistono. Chi ci lavorerà, visto che i numeri del personale sono già al lumicino? Consulenti esterni, ovvero «mediatori esperti» o «enti del terzo settore». Eccole, le coop, le cui mani si allungheranno sia sulla gestione dei programmi, sia sul ricco mercato della formazione. La complessità dell'accordo riparativo richiederebbe, oltre alla formazione dei mediatori, anche la formazione universitaria di coloro che assistono le parti, perché serve una «figura professionale nuova» così come invocata di recente dalla Cassazione (la 8473 del 2019) che abbia acquisito «ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate», come sottolinea nel libro il professor Monoriti.

Di che numeri parliamo? I procedimenti penali pendenti sono 1,5 milioni, le persone coinvolte molte di più. Facile pronosticare che nel giro di un anno - vista la posta in palio, la diminuzione della pena e la gratuità del percorso - le istanze possano lievitare. Quanti sono i mediatori esperti? Al momento nessuno, fra qualche mese poche decine. C'è un elenco al ministero della Giustizia, l'inserimento è ovviamente subordinato al possesso di specifici requisiti: esperienza di giustizia riparativa, aver completato una formazione teorica e pratica, esperienze presso servizi minorili o esecuzione penale esterna. Tutti parametri molto stringenti, che da un lato avvantaggiano le coop che già lavorano col ministero, dall'altro penalizza chi dal 2013 opera in forma non organizzata, come lamenta l'avvocato Demetrio Calveri, fondatore della Camera di Mediazione Nazionale e responsabile scientifico dell'Airac. La sua richiesta al Senato di valorizzare mediatori familiari e civili con anni di esperienza non è stata accolta. «Esperti in programmi di giustizia riparativa o in tecniche di risoluzione alternativa dei conflitti, anche con esperienza decennale, non potranno svolgere la professione - dice al Giornale - posto che l'articolo 9 del decreto attuativo, che disciplina i requisiti soggettivi e di onorabilità, prevede il non essere iscritti all'albo dei mediatori civili o familiari... mettendo così sullo stesso piano professionisti e chi ha una condanna o procedimenti in corso. «Questa follia ha una logica - continua l'avvocato - ovvero cercare di escludere quanti più soggetti possibili». Perché?

Poi c'è il tema dei centri. Dove avverranno gli incontri «riparativi» tra vittime e carnefici? Qualcuno maligna che proprio le «case territoriali di riferimento» tanto care alla sinistra potrebbero diventare i nuovi centri di giustizia riparativa.

E il cerchio (del business) si chiude.

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