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"I conti di Formigoni? Non sono mai esistiti"

L'imprenditore condannato a 22 anni: "La verità processuale cozza con quella storica"

"I conti di Formigoni? Non sono mai esistiti"

Sta seduto a spulciare conti. Un palazzo che ospita un centro medico convenzionato nel cuore di Bordighera, dove la Liguria si specchia nella vicina Costa Azzurra. La nuova vita di Pierangelo Daccò, ormai sul crinale dei 67 anni, riparte da qui: l'avevano dipinto come l'uomo chiave del sistema Formigoni e lui era sparito, travolto dai processi Maugeri e San Raffaele.

Rieccolo dietro quella scrivania per la prima intervista dopo un lunghissimo periodo di silenzio. Tecnicamente, siamo nella fase dell'affidamento in prova ai servizi sociali, insomma Daccò «scortato» dall'avvocato Gabriele Vitiello, non ha ancora finito di scontare le pesantissime pene cui era stato condannato.

Ed è proprio da questa situazione che inizia la conversazione, faticosa, perché le parole vengono centellinate e arrivano inframezzate da lunghe pause di silenzio. «Mi hanno dato per le vicende Maugeri e San Raffaele, divise in tre processi, una pena complessiva di 22 anni, uno sproposito, qualcosa che non si infligge nemmeno a un assassino, ma evidentemente qualcuno riteneva che io avessi le chiavi dei fantomatici conti segreti di Formigoni che nessuno ha mai trovato, perché non esistevano».

I giudici su di lei la pensavano diversamente.

«È inutile riprendere questo discorso, ma la verità processuale cozza, e non poco, con quella storica. Diciamo che in concreto dal novembre 2011 ho trascorso 5 anni in carcere senza mai mettere piede fuori e un anno ai domiciliari per poi passare, dopo un periodo di sospensione della pena, ai servizi sociali ancora in corso».

La sua vita oggi?

«Intanto debbo dire che hanno confiscato tutti i miei conti e i miei beni e non ho più nulla. Sono il segretario amministrativo qui dentro e lavoro da lunedì mattina a venerdì pomeriggio. Al sabato accudisco una persona anziana e malata, la domenica torno a casa, da mia moglie Anita a Sant'Angelo Lodigiano. Lei non mi ha mai abbandonato, molti altri, invece, che mi erano vicini, sono spariti. Mai più visti. Ma non è questo che che mi preoccupa, è altro che mi fa soffrire».

Che cosa?

«Che i magistrati abbiano criminalizzato la mia vita, tutta la mia vita e tutta la mia attività di imprenditore».

Sempre nel mondo della sanità che poi l'ha portata alla rovina?

«Mi occupavo pure di altro: papà aveva una tessitura e io mi ero allargato. Avevo una proprietà agricola in Toscana a Castelfalfi, con annesso hotel e golf a 18 buche, e poi nove bar e un'agenzia di viaggi, la Magic Travel, in via Montenapoleone a Milano. Questo già in tempi non sospetti, lontano dal Pirellone e dalla politica. Poi, certo, il grosso era la realizzazione di ospedali e cliniche. Ero diventato l'uomo di fiducia dell'ordine religioso dei Fatebenefratelli e di conseguenza il general contractor di una decina di strutture ospedaliere in giro per il mondo, dove mi muovevo senza problemi, anche perché parlo tre lingue: inglese, francese, spagnolo. È in quella veste di manager collaudato che conosco Formigoni negli anni Novanta e comincio a collaborare con lui».

Per i magistrati fu un matrimonio d'affari senza rispetto per le regole, fra tangenti e fondi neri. Ce l'avevano con lei perché truccava le carte?

«Un giorno l'allora procuratore di Milano Francesco Greco arrivò a dire che io avevo giocato sulla testa dei bambini cerebrolesi uno a uno. Una frase offensiva».

Perché?

«Lui si riferiva all'ospedale per i piccoli cerebrolesi di Vina del Mar, in Cile, che mi era stato commissionato proprio dai Fatebenefratelli e più precisamente dalla Provincia sudamericana meridionale dell'ordine. Formigoni e la Regione Lombardia non c'entravano per nulla, ma tutta la mia attività è stata riletta alla luce del mio peccato originale, attribuendomi quello che non ho mai fatto. In realtà io ero un imprenditore agiato che aveva mille attività e mille relazioni: ero anche nel cda dell'Inter di Ernesto Pellegrini. Invece, mi hanno fatto passare per un delinquente avido e cinico. O se preferisce, per un faccendiere, come mi hanno apostrofato i giornali».

Lei ha detto davvero tutto su quel che è successo?

«Si ma non mi hanno ascoltato».

A cosa si riferisce?

«A un episodio a dir poco inquietante che mi è capitato a casa, a Sant'Angelo Lodigiano, due anni fa. Qui un giorno arrivano due tizi: uno resta in macchina, l'altro chiede di me».

Poi?

«Lo fanno accomodare in una saletta sotto l'occhio delle telecamere che riprendono tutta la scena. Io entro e lui a bruciapelo, senza tanti preamboli, mi chiede 21 milioni di euro che, secondo lui, gli doveva dare Mario Cal, il braccio destro di don Verzé, morto suicida sotto la cupola del San Raffaele nei giorni bui della ipotesi della bancarotta per cui veniva emessa ordinanza di custodia contro di me. Questo signore evidentemente pensava che io avessi fatto sparire il malloppo insieme a Cal».

Mi scusi, ma perché questo tizio è venuto proprio da lei?

«In breve io avevo relazioni personali con il direttore Cal che era in grande difficoltà e che, secondo la testimonianza del suo autista, era ricattato dalla camorra. Il contrario di quel che sosteneva quel soggetto».

Cal oggi non c'è più e non può difendersi. Che senso ha raccontare ora quel che è accaduto due anni fa?

«Il punto è proprio questo: io ho risposto a questo signore di venire con me dai carabinieri per denunciare i fatti e mi sono avviato verso l'uscita, ma a quel punto lui è scappato. Io però ho portato le immagini delle telecamere e le testimonianze dei presenti alla procura di Lodi».

Risultato?

«Non ho saputo più nulla, ma mi hanno detto che la procura ha archiviato il mio dossier e la mia denuncia. Quei due signori, lui e l'altro fuggito a sua volta con la macchina, restano un enigma. Come i fantomatici conti di Formigoni di cui mi chiedevano conto i magistrati.

Non li hanno mai trovati, forse per la semplice ragione che non esistevano».

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