Politica estera

I leader non vogliono una guerra. Ma Pechino ha il pallino su Taiwan

Nemmeno la gaffe del presidente degli States con i giornalisti rompe la concordia. Ma il Dragone non può più accettare imposizioni

I leader non vogliono una guerra. Ma Pechino ha il pallino su Taiwan

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Una cosa è certa Joe Biden e Xi Jinping in questo momento hanno ottime ragioni per non farsi la guerra. Quelle di Biden si chiamano Ucraina, Gaza e lotta per la rielezione. Tre partite dove il presidente americano è all'impasse e che gli consigliano di non aprirne una quarta. Le ragioni di Xi si nascondono tra le crepe dell'economia e si chiamano calo delle esportazioni, bolla immobiliare e disoccupazione giovanile (21,3%) da record. Quanto basta per non esacerbare uno scontro con gli Usa che metterebbe in fuga altre multinazionali e ingrosserebbe ulteriormente i pesanti disinvestimenti occidentali.

Mercoledì, insomma, il presidente americano e quello cinese avevano ottime ragioni per lasciare l'appuntamento di San Francisco non con il broncio, ma con il sorriso sulle labbra. E così neppure l'ennesima gaffe di un Biden - incapace, a fine incontro, di trattenere la parola «dittatore» per definire l'omologo cinese - riesce a infrangere l'atmosfera apparentemente riconciliatoria del vertice. Ma per capire quanto quella riconciliazione sia apparente, transitoria e obbligata basta prestare attenzione alle parole usate dal presidente cinese durante l'incontro. «Il mondo - ripete Xi - è abbastanza grande per accogliere entrambi i Paesi». La frase rassicurante nelle intenzioni è, invece, il metro delle cresciute ambizioni del novello imperatore comunista. Fino a pochi anni fa - quando ancora discuteva con Donald Trump o Barack Obama - era il Pacifico e non il mondo nelle parole di Xi a essere «abbastanza grande per entrambi». Ma da quando il suo potere si è esteso all'Africa e al mondo dei Brics, i confini dell'oceano non gli bastano più. E così, ormai, Xi cela a stento la pretesa di essere uno dei due predestinati chiamati a decidere se Stati Uniti e Cina collaboreranno o si scontreranno. Una decisione - precisa con il tono da signore del mondo - che potrebbe «decidere il futuro dell'umanità».

Poche illusioni. Dopo aver cancellato i vincoli costituzionali che gli precludevano il regno a vita, aver fatto piazza pulita dei rivali di Partito e aver ridimensionato o incarcerato capitalisti e imprenditori pronti a sottrarsi ai suoi diktat, Xi Jinping è ormai convinto di rappresentare l'unico grande rivale di America ed Occidente. E di esser quindi chiamato a ridisegnare l'ordine mondiale imponendo le proprie regole. Prima fra tutte il diritto a rispondere con la forza se Stati Uniti o altri gli impediranno di annettersi Taiwan. Non a caso il destino di Formosa resta, anche a San Francisco, l'unico punto su cui Xi non contempla ambiguità. E per quanto le parole usate nell'incontro con Biden suonino meno bellicose che in passato il loro senso non cambia. Per il presidente cinese spetta a Biden e agli Usa intraprendere «azioni concrete» per rassicurare una Cina che considera inaccettabile qualsiasi discorso sull'indipendenza dell'isola e pretende la fine delle esportazioni di armi americane a Taiwan.

Insomma se Xi tergiversa e mostra un volto bonario non è perché si è ravveduto, ma solo perché - fedele alle lezioni di Sun Tzu - vuole essere lui a scegliere il luogo dello scontro con l'America.

Ed anche per questo Biden non riesce a far a meno di chiamarlo dittatore.

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