Guerra in Ucraina

I panzer, un simbolo per Mosca e Berlino

Nella storia (contrapposta) dei due Paesi sono l'icona stessa della guerra

I panzer, un simbolo per Mosca e Berlino

Gli anti-carro Javelin, i lanciarazzi Himars, i missili Patriot. Di volta in volta sono stati indicati come altrettanti «game-changer» del conflitto ucraino, come fattori in grado di spostare gli equilibri del confronto bellico. In nessun caso, però, il tema delle forniture d'armi ha assunto una rilevanza pari a quella dei tank che l'Occidente si appresta a inviare a Kiev.

Per Paesi come la Germania la questione dei panzer è diventata la cartina di tornasole dell'atteggiamento verso il conflitto: un segnale fondamentale di prontezza e decisione nell'aiutare davvero gli aggrediti contro gli aggressori. Al contrario per la Russia l'invio dei tank ha assunto i caratteri di una linea rossa il cui superamento rischia di scatenare la guerra totale.

In queste posizioni contrapposte pesa un elemento concreto: l'importanza che, secondo molti analisti militari, l'uso coordinato di carri armati, fanteria e artiglieria potrebbe assumere nelle battaglie campali previste per la primavera. A influire, però, è anche un elemento potentemente simbolico: i panzer, o tank, come si chiamano in russo, sono per i due Paesi l'essenza stessa della guerra. Sia essa la «grande guerra patriottica» combattuta tra il 1941 e il 1945, o la guerra fredda attesa e temuta fino al 1989.

Per i cittadini dell'ex Unione Sovietica la battaglia di Kursk (nella foto), il più grande scontro tra carri armati della storia, combattuto tra Armata Rossa e Wehrmacht nel corso dell'estate 1943 nella zona di confine tra Russia e Ucraina, ha un significato di poco inferiore all'assedio di Stalingrado. A commemorarla sono film, rievocazioni nelle scuole, canzoni popolari come i Tre tankisti, che fa parte da decenni del repertorio del Coro dell'Armata rossa. Ai carristi è dedicata la seconda domenica di settembre, giornata nella quale sono di regola in calendario manifestazioni e sfilate.

Solo qualche anno fa, nel 2019, uno storico, Ben Wheatley, esaminò nuove immagini aeree dello scontro di Kursk, scattate a suo tempo dagli aerei della Luftwaffe e da poco ritrovate nel fondo di un archivio. L'analisi delle carcasse dei carri messi fuori gioco dimostrava, secondo lo studioso, che lo scontro era stato tutt'altro che decisivo e che per l'Armata Rossa si era trattato di una specie di vittoria di Pirro costata perdite sanguinose. Riportata su un giornale tedesco l'analisi si trasformò in un incidente diplomatico: intervenne perfino l'ambasciatore di Mosca che parlò di «volontà di riscrivere immutabili fatti storici, falsificare gli eventi, sminuire il ruolo dell'Armata Rossa nella sconfitta del nazismo».

Per i tedeschi la sensibilità è esattamente identica e contraria. A formarla hanno contribuito il secondo conflitto mondiale (quando gli ufficiali di Stalin scrivevano: «I nostri carri armati avanzano più veloci dei treni in direzione di Berlino») e poi la guerra fredda.

Per decenni la classe dirigente tedesca ha dovuto fare i conti con i piani del possibile conflitto tra Nato e Patto di Varsavia. Le linee strategiche di Mosca prevedevano di usare in prima linea i reparti dell'esercito dell'ex Germania Est e poi di assestare l'attacco decisivo con un «pugno» d'acciaio formato da 20mila carri armati dei diversi Paesi del Patto, tenuti in assetto operativo. All'inizio degli anni Novanta, quando Stati Uniti ed Unione Sovietica si accordarono per una riduzione delle armi convenzionali in Europa, l'Unione Sovietica dichiarò di poter schierare 41mila tank, accettando di ridurli della metà. Negli ultimi tre decenni il numero è diminuito in maniera netta e costante.

Senza però che cambiasse di molto il loro ruolo virtuale.

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