Magistratura

I trucchi dei magistrati per incastrare l'Eni

Nel processo di Brescia al procuratore De Pasquale emerge un quadro desolante di inquirenti pronti a tutto

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In Procura a Milano lo chiamavano «Enzo». Vincenzo Armanna, avvocato siciliano, è riuscito in vita sua in due miracoli. Il primo, infiltrarsi all'interno di Eni, la più grande azienda di Stato, creando una struttura parallela e occulta, in grado di condizionare e soppiantare il management ufficiale. Il secondo, quando il primo castello va a gambe all'aria, infiltrarsi all'interno della Procura di Milano, diventare il suo testimone chiave avvelenando con le sue falsità i pozzi delle indagini. Quali abilità, quali oscuri legami lo abbiano accompagnato in queste due incarnazioni forse non lo sapremo mai, nonostante il processo senza precedenti aperto a Brescia.

Non si era mai visto un «processo al processo» come quello in corso ormai da mesi, e destinato a durare per tutto l'anno, davanti al tribunale di Brescia. Sul banco degli imputati ci sono due magistrati importanti: Sergio Spadaro, oggi in forza alla Procura europea, e il suo mentore, Fabio De Pasquale, tuttora procuratore aggiunto a Milano. Insieme, sono accusati di avere protetto «Enzo», nascondendo le prove della sua professionale, pervicace falsità: e tutto per arrivare alla condanna dei vertici Eni. Gli stessi vertici contro cui intanto Armanna tramava, usando la Procura di Milano come una clava per regolare i conti con l'azienda che lo aveva licenziato.

Come finì il processo Eni è noto: tutti assolti, a partire dal numero uno del cane a sei zampe, Claudio Descalzi. Meno noto, perso nei resoconti di udienze che rimbalzano da un mese all'altro, è quanto ora sta emergendo a Brescia. È uno spaccato dall'interno non solo del caso Eni ma dei meccanismi della giustizia, dove in nome del furore investigativo - furore agonistico, verrebbe da chiamarlo - si scavallano sia i diritti degli imputati che i doveri dei magistrati, chiamati dalla legge a cercare le prove anche dell'innocenza.

Sono verbali disarmanti, quelli delle udienze scorse. C'è l'interrogatorio di Paolo Storari, il pm milanese cui si deve lo scoperchiamento del caso, che ha raccontato al tribunale presieduto dal giudice Roberto Spanò come i suoi tentativi di fare venire a galla la verità sulle malefatte di Armanna siano stati ripetutamente insabbiati. Quello del giudice Marco Tremolada, il giudice del caso Eni, cui vennero più volte nascoste le prove che scagionavano Descalzi e gli altri, e che la Procura cercò di delegittimare. Il movente emerge, fin troppo chiaro. Il 18 gennaio Spanò dice a Tremolada: «Sappiamo che nelle riunioni di Procura lei veniva considerato appiattito sulle posizioni delle difese». «Sì», risponde Tremolada. La Procura cercò di dimostrare che era colluso con gli imputati. «Ancora adesso la cosa mi ferisce, cerco di dimenticare e invece non riesco».

De Pasquale e Spadaro sono accusati di avere nascosto - a Tremolada e alle difese - le chat e i video in cui emergeva chiaramente il gioco sporco di Armanna per fare fuori i vertici Eni e tornare in gioco su un appalto da due miliardi («vedrete la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento»), le stecche versate ai falsi testimoni. Cosa inconsueta, Tremolada deve spiegare in aula - senza violare il segreto della camera di consiglio - come arrivò la sua sentenza di assoluzione: «Nessuno dei punti è stato provato, non l'accordo corruttivo, non il versamento di denaro». Se avesse avuto il materiale tenuto nascosto dalla Procura assolvere gli imputati «sarebbe stato più facile e si sarebbero aggiunte altre decisioni», cioè l'incriminazione di Armanna per calunnia: il nido dei veleni sarebbe stato svuotato per tempo.

Ma ancora più eloquente, più inquietante di Tremolada è la testimonianza che arriva dopo, che proseguirà il 20 febbraio e che apre il sipario su un altro tema poco esplorato: il rapporto tra le Procure e il loro braccio armato, la polizia giudiziaria. Sul banco dei testimoni va un ufficiale della Finanza, Fabio Seragusa, che lavorava per il pool di Milano. É lui a sequestrare i cinque telefoni di Armanna, e a scovare la chat che è la pistola fumante dei traffici dell'avvocato siciliano, i 50mila dollari versati a due testimoni africani perché mentissero anche loro contro i vertici dell'Eni. Seragusa ne scrive in una bozza di relazione alla Procura, ma nella versione finale della relazione dei 50mila dollari non si parla più. Cosa è accaduto, chi lo ha indotto a toglierla? Il colonnello prima dice una cosa e poi un'altra, «questa parte venne di fatto espunta, «non c'è stata una espunsione vera e propria», «era un work in progress». Alla fine dice che per la Procura quella non era un prova, poteva essere una chiacchiera, mancavano i bonifici. Il giudice Spanò trasecola: «nei processi per droga queste sono prove».

Ma «Enzo» Armanna non era un trafficante di droga. Era un testimone della corona, andava salvato a tutti i costi.

E la relazione della Finanza venne cambiata.

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