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L'appello di Confindustria: "L'Italia perde competitività"

Il Centro studi: "I salari possono salire solo se crescerà la produttività. Il governo stabilizzi il taglio del cuneo"

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Se si ambisce a un miglioramento generalizzato delle condizioni salariali, non si può prescindere da un incremento della produttività del lavoro. È quanto ha sottolineato ieri il Centro studi Confindustria (CsC) in una nota nella quale si sottolinea che tra il 2000 e il 2020 nel manifatturiero italiano i salari reali per ora lavorata sono cresciuti del 24,3%, una variazione pressoché in linea con quella cumulata della produttività del lavoro (+22,6%).

L'analisi confindustriale evidenzia come il rapporto tra costo del lavoro per unità di prodotto (la produttività del lavoro) e i salari medi reali (cioè parametrati all'inflazione) non sia stato direttamente correlato negli ultimi 23 anni. Le dinamiche retributive hanno avuto un'evoluzione costante sia in ragione dei meccanismi contrattuali che grazie all'«attivazione degli ammortizzatori sociali». Nel biennio 2021-22 le tensioni inflazionistiche hanno invece eroso il potere d'acquisto a fronte di una generale tenuta della produttività.

«Nei prossimi anni i salari sono previsti recuperare potere di acquisto, in virtù di un meccanismo contrattuale che spalma su più anni gli effetti di fiammate inflazionistiche», osserva il CsC aggiungendo che «rimarrà cruciale che gli aumenti salariali a copertura dell'inflazione siano accompagnati da guadagni di produttività sufficienti ad evitare un'erosione della redditività di impresa a danno della propensione ad investire o a un innalzamento del costo del lavoro che andrebbe ad alimentare le pressioni inflazionistiche» in quanto le aziende dovrebbero scaricare il maggior costo del lavoro sui prezzi finali.

Il monito è uguale a quello che, in ogni occasione, ripete il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ossia che occorre evitare di innescare una spirale prezzi-salari che allontanerebbe il rientro dell'inflazioni nei suoi binari. Ed è per questo motivo che il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, così come tutte le altre associazioni di impresa, a partire da Confcommercio, chiedono al ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, di stabilizzare il taglio del cuneo. Fiscalizzando gli oneri contributivi, infatti, si abbassa il costo del lavoro senza incidere sulla redditività delle aziende.

La nota del CsC, tuttavia, confuta un argomento che sta prendendo sempre più piede nel dibattito pubblico: il contributo dei profitti alla crescita dell'inflazione. Dal 2004 al 2020 si è registrata una costante «erosione della cosiddetta quota profitti», ovvero la quota di valore aggiunto che remunera il capitale (rapporto tra margine operativo lordo e valore aggiunto). Partiva nel 2000 sopra quello medio nell'Eurozona (38,3% contro 34,7%), ma dal 2004 è stabilmente sotto, con un divario pari a 3,6 punti nel 2020 (34,8% contro 38,4%). Tutto questo nonostante gli investimenti fissi lordi siano aumentati. Dunque, quello che si osserva in Eurolandia (l'incidenza degli utili sull'inflazione) in Italia è vero solo parzialmente giacché Cerved ha rilevato un incremento di marginalità nell'energia e nelle costruzioni a causa di caro-gas e Superbonus. Insomma, conclude Viale dell'Astronomia, «l'industria italiana si trova incagliata in un circolo vizioso dove la mancata crescita della produttività è al tempo stesso causa ed effetto della perdita di competitività».

Di qui la richiesta a Giorgetti non solo di tagliare le tasse sul lavoro, ma anche di incentivare l'innovazione e, soprattutto, a non perdere la partita del Pnrr.

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