L'analisi del G

Mahsa uccisa un anno fa. Gli iraniani senza fede ma il regime è più forte dei sogni di democrazia

L'omicidio della ragazza ha spinto in piazza le folle, oggi solo il 15% crede negli ayatollah, ma Teheran ha stroncato il dissenso: 500 civili uccisi e migliaia di arresti. L'unica crepa: la successione di Khamenei

Mahsa uccisa un anno fa. Gli iraniani senza fede ma il regime è più forte dei sogni di democrazia

Cinquecento dimostranti - tra cui ben 71 minorenni - ammazzati come cani. Centinaia di loro compagni feriti, migliaia di arresti e almeno sette dissidenti mandati alla forca. Il tutto mentre sul terreno si raccoglievano i cadaveri di dozzine di esponenti delle forze di sicurezza. È il terribile bilancio dei mesi di rabbia ed esasperazione che hanno sconvolto l'Iran dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne curda ammazzata di botte lo scorso 16 settembre da una pattuglia della «Polizia della Morale». Un assassinio tanto brutale quanto inutile consumatosi durante il trasferimento in caserma della ragazza curda sorpresa senza velo dopo un controllo alle porte di Teheran. Inaspettatamente la morte di quella ragazza innocente, estranea alla politica e mai entrata in contatto con i movimenti di opposizione, spinge in piazza migliaia di dimostranti. E per tre mesi a Teheran e in molte altre città vivono un clima di aperta rivolta. Ad un anno di distanza, però, la rabbia e la voglia di libertà che innescarono quelle proteste sembrano riassorbite. Anche ieri notte, in alcuni quartieri di Teheran, i residenti hanno intonato slogan contro la Repubblica islamica, ma le parole d'ordine «Donna, vita, libertà» e «Morte al dittatore» che spingevano i dimostranti a sfidare morte e repressione appaiono cancellate. La vita resta improntata ai principi dell'Islam sciita. La libertà rimane un sogno. E ovunque regna nuovamente il tetro ordine della legge islamica.

Anche perché la «Polizia della Morale» - ritirata per qualche mese dalle strade - è tornata ad imporre velo e punizioni corporali alle donne. Il tutto mentre il «dittatore» - o meglio la Suprema Guida Alì Khamenei - resta nonostante acciacchi ed età saldamente al comando. Il sistema di potere garante della sua autorità e della sopravvivenza della Repubblica Islamica non è stato, infatti, minimamente scalfito dai moti di piazza. In tutto ciò affermare che rabbia, voglia di libertà e malcontento sono stati completamente cancellati sarebbe, però, un'esagerazione. Secondo un rilevamento su un campione di 158mila residenti in Iran effettuato da Gamaan, un istituto di ricerca basato in Olanda, solo il 15 per cento della popolazione crede ancora nella Repubblica Islamica fondata dall'ayatollah Ruhollah Khomeini. L'81% si dice deciso ad abolirla mentre un 4 per cento resta incerto e dubbioso. Fra quell'81% di potenziali oppositori il 28% sogna una repubblica presidenziale, il 12% la preferirebbe parlamentare e il 25 % invoca un ritorno allo monarchia dello Scià mitigata da riforme costituzionali.

Già le divisioni tra monarchici e repubblicani la dicono lunga sulla difficoltà di dar vita ad un movimento d'opposizione capace di raccogliere i mutevoli consensi della maggioranza silenziosa iraniana. Il tutto in un panorama politico e sociale dove non esistono leader pronti a guidare un'eventuale alternativa al «dittatore» e al suo potere. Anche perché quelli emersi in passato sono spesso reduci dello stesso movimento khomeinista. E in ogni caso a nessuno di loro è concessa libertà di pensiero o azione. L'esempio più rilevante è quello di Mehdi Karroubi. Il religioso, ex-compagno di lotta dell'ayatollah Khomeini trasformatosi nel 2009 in padre spirituale del cosiddetto «movimento verde», è da oltre 12 anni agli arresti domiciliari, ma si è sempre guardato dall'invocare la fine della Repubblica islamica. L'unico ad averlo fatto, proprio dopo gli scontri dello scorso autunno, è stato l'ex primo ministro Mir-Hossein Mousavi, il candidato che nel 2009 sfido il presidente Ahmadinejadi alle presidenziali e guidò con Karroubi la protesta verde. Una conversione di scarso valore pratico visto che pure lui è segregato in casa da oltre un decennio. All'assenza di leader riconosciuti dell'opposizione si contrappongono la sperimentata pervasività e la sinistra efficienza dell'apparato repressivo che da 44 anni garantisce la sopravvivenza del sistema. Al centro di quell'apparato restano i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione tempratesi nelle rivolte contro lo Scià e nella sanguinosa guerra con l'Iraq. I loro capi, seppur stagionati, garantiscono una fedeltà totale alla Suprema Guida e al regime. Fedeltà incarnata anche dai «basiji» le «forze di mobilitazione», articolazione del corpo dei Pasdaran, capaci mettere in campo 600mila volontari e qualche milione di riservisti. Una forza implacabile nel reprimere qualsiasi rivolta interna che - come già nel 2009 quando spazzò via il movimento verde di Karroubi e Moussavi - fa della spietata e incontrollata violenza l'elemento determinante per spegnere la protesta.

In tutto ciò l'ipotesi di un cambio di regime invocata da molti dimostranti resta un sogno lontano. E questo nonostante il peso delle sanzioni, il generalizzato malcontento popolare e le fallimentari politiche del presidente Ebrahim Raisi criticato persino dai conservatori per l'incapacità di tenere a freno inflazione e svalutazione. Anche l'ipotesi di un intervento esterno guidato da un' Israele preoccupata dalla corsa al nucleare di Teheran sta perdendo spessore. La sostanziale alleanza di Teheran con Mosca sul fronte dell'Ucraina, l'atteggiamento molto prudente di Gerusalemme nei confronti di una Russia con cui ha precisi accordi sul fronte siriano e i timori di un'inarrestabile allargamento del conflitto stanno spingendo Washington a riaprire le intese sul nucleare con Teheran. Insomma se vogliamo guardare ai fattori capaci di incrinare la monolitica saldezza dimostrata fin qui dalla Repubblica Islamica bisogna guardare ad un corto circuito capace d'innescare una lotta ai vertici. Su quel fronte il principale appuntamento riguarda la successione all'84enne Alì Khamenei. Una successione che già oggi divide i vertici del clero sciita preoccupati per la possibile scelta della Suprema Guida di lasciare il posto al figlio Mojtaba. Per molti ayatollah quel rampollo 54enne, promosso al ruolo di consigliere del padre dopo gli studi nelle scuole religiose di Qom resta inadeguato a ricoprire la carica di supremo interprete del pensiero politico e religioso. Ma a fronte delle contestate carenze dottrinali Mojtaba Khamenei vanta un solidissimo rapporto con i vertici dell'intelligence e dei Pasdaran. Dunque se la «dottrina» latita, la «forza» è saldamente con lui.

E questo in Iran continua a fare la differenza.

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