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In Myanmar tra i ribelli per la libertà

Viaggio nella giungla dove i birmani si addestrano per combattere la giunta militare

In Myanmar tra i ribelli per la libertà

Il foglio brucia e la cenere si mescola all'acqua mentre il capitan Tua immerge nel secchio un machete e un razzo anticarro. Sullo spiazzo disegnato tra le capanne di bambù e il fitto intrico di mangrovie, quaranta reclute in mimetica sostano sull'attenti. Uno alla volta escono dalla fila, immergono un bicchiere nel secchio e tracannano fino all'ultimo sorso quel liquido torbido e brunastro. «Questo - spiega il Capitano - è il nostro giuramento di fedeltà. L'abbiamo vergato sulla carta, bruciato con il fuoco e mescolato all'acqua e alle armi con cui combatteremo per il nostro paese».

Siamo nel mezzo di una giungla umida e impenetrabile. Qui il giorno è costante penombra. E il silenzio un assordante frinire di cicale e insetti rotto dalle urla di uomini e ragazzi in divisa. L'ultimo lembo di Thailandia è quindici chilometri più indietro. Ma la Birmania qui è pura convenzione. Sul campo sventola la bandiera bianca rossa e blu dell'Esercito di Liberazione Nazionale Karen. La stessa issata sul posto di blocco di confine. Lì le lettere intarsiate nella corteccia di banano danno il benvenuto nella Repubblica di Kaw Thoo Lei, la «terra libera dal male» che da oltre 70 anni rappresenta l'irrealizzato sogno della minoranza Karen. Ma da quando il capo di stato maggiore birmano Min Aung Hlaing ha rispedito in galera Aung San Suu Kyi spazzando via l'esile democrazia germogliata un decennio fa, il sogno dei Karen è diventato speranza condivisa. «Io son qui da dieci anni, ma una cosa del genere non l'ho mai vista. Qui un tempo - ammette il capitan Tua responsabile del Kndo (Organizzazione della Difesa Nazionale Karen) per l'addestramento - arrivavano solo ragazzi Karen. Stavolta almeno una dozzina di volontari sono birmani. Sono in fuga da Yangon e dalle altre città, hanno partecipato alle manifestazioni e hanno avuto parenti e amici uccisi o fatti prigionieri. Per questo ora desiderano soltanto tenere un fucile in mano e combattere al nostro fianco». Aung Jo Jo, 20 anni, è uno di loro. I lunghi capelli e i colpi di sole sopravvissuti alla crescita sono l'ultimo retaggio del suo «look» urbano. Lui alza la maglietta, mostra la schiena nuda attraversata da due cicatrici vermiglie. «Questi due proiettili me li sono presi il 29 marzo a Bago, la mia città. Eravamo a lato della strada e preparavamo una dimostrazione, ma i militari non ci hanno fatto muovere un passo. Ci hanno sparato addosso. Ho sentito il proiettile bruciarmi la schiena, ma son riuscito a salvarmi. Molti amici non sono stati così fortunati. Alcuni sono morti sull'asfalto, altri sono stati catturati. Mentre mi nascondevo per evitare l'arresto ho incominciato a chiedermi che senso aveva protestare e rischiare la vita in quel modo, senza un'arma per difendersi. Alla fine ho deciso. La cosa migliore era mollare tutto e venire qui nella giungla».

A guidare Aung Jo Jo e il resto delle reclute birmane ci pensa il 35enne Meh Mi Tou. Arriva da Rangoon e si distingue dagli altri perché sulla spallina della mimetica esibisce un dragone dorato simbolo di uno sconosciuto «Esercito di Resistenza Popolare». «I miei capi sono nelle città - spiega - ma ben presto le abbandoneranno. La protesta pacifica non ha più speranza, appena scendi in piazza i militari ti sparano e ti uccidono. L'unica via rimasta è l'alleanza con i Karen e gli altri gruppi etnici in lotta con il regime da decenni. Solo quando avremo le armi da distribuire a chi è rimasto nelle zone urbane potremo sperare di liberare qualche città». Ad affievolire il sogno e le speranze di questi oppositori contribuisce non poco l'indifferenza della comunità internazionale. «Speravo, come tutti, nell'Europa e negli Stati Uniti, ma ho capito che m'illudevo - spiega Win Htike Lwin, un muratore 38enne fuggito dalla città di Bago ottanta chilometri a nord di Yangon - Sono una persona semplice, non ho studiato, ma non sono stupido. Ho compreso sulla mia pelle che il mondo ci ha abbandonato. Il 9 aprile ero ancora in città ed ero sceso in piazza con altri oppositori. Quel giorno i soldati hanno usato i razzi anticarro per disperderci. È stato un massacro. Ho contato 17 cadaveri solo attorno a me. Tra San Tawtwin Road, la via principale di Bago, e Magade Street, la strada appena dietro, ci saranno stati un'ottantina di corpi. Ero convinto che, dopo quella strage, Washington, Parigi, Bruxelles e le altre capitali avrebbero reagito. Invece non è successo un bel niente. Ora ho capito: gli unici di cui mi posso fidare sono i Karen.

Almeno loro combattono la dittatura da 70 anni».

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