Cronaca internazionale

Il popolo della Silicon Valley sta cercando un nuovo lavoro

I giganti tecnologici licenziano 170mila dipendenti. Una ristrutturazione che segue pandemia e inflazione

Il popolo della Silicon Valley sta cercando un nuovo lavoro

Gennaio '23. «È stato meglio lasciarsi che non esserci mai incontrati». Se conoscesse De Andrè, il tagliatore di teste George Clooney di Tra le nuvole potrebbe oggi indorare così la pillola al tizio che sta per licenziare. Senza neppure essere più costretto, portatore della cattiva novella, a rimbalzare da Portland a Fort Lauderdale. Rispetto al 2009, anno di uscita del film, le cose sono cambiate. Allora, causa disastri da mutui subprime, una ghigliottina in moto perpetuo calava sull'intero fronte occupazionale. Ora, invece, il personale accompagnato alla porta si concentra quasi tutto nella Silicon Valley. Da Eldorado, l'area di insediamento dei principali gruppi hi-tech della Corporate America si sta trasformando in un triangolo delle Bermuda che risucchia migliaia di posti di lavoro. E dopo 14 anni, è cambiato anche il modo con cui si liquida l'esubero: non più consegnando il depliant con i corsi di formazione suggeriti, ma solo con una mail impersonale. Anzi, glaciale. Come quella con cui Sundar Pichai, ceo di Alphabet, ha comunicato ieri il «lay off» a 12mila dipendenti della controllata Google, ai quali saranno garantiti 60 giorni di salario e almeno 16 settimane di liquidazione. In ogni caso, tutta gente che va a ingrossare l'esercito dei fuoriusciti, già composto dai 18mila licenziati da Amazon, dagli 11mila cacciati da Meta (la società madre di Facebook) e dai 10mila estromessi da Microsoft.

Ma questi numeri non sono altro che la punta dell'iceberg, visto che il settore ha finora cancellato oltre 170mila esuberi. Cifre che rendono un po' meno credibile la narrazione edulcorata del rapido ricollocamento di figure professionali ricercate, ma che sono soprattutto il sintomo della fine di quell'era, ipertrofica, che aveva gonfiato il personale nel periodo del Covid. Quando le clausure collettive avevano rimodellato stili di vita e abitudini di miliardi di persone, alzato l'alta marea del flusso web e ingigantito così a dismisura i consumi online. Le quotazioni folli raggiunte a Wall Street dalle cosiddette FAANG (Facebook, Amazon, Netflix, Google e Apple, l'unica a non aver annunciato tagli significativi) riflettevano la convinzione che la tendenza impressa dalla pandemia non sarebbe mutata una volta ritornato il mondo alla normalità. Così non è stato. L'inflazione elevata ovunque ha tagliato le unghie ai consumatori, riducendone la capacità di spesa. I venti di recessione hanno fatto il resto. L'errore esiziale di valutazione sul post-Covid, una mazzata sui bilanci e una tranvata per la capitalizzazione (la Mela morsicata ha perso oltre 1.000 miliardi nel 22), obbliga ora i colossi tecnologici a un ripensamento su dove posizionare il business. Nel tempo allontanatosi dall'area core, quella d'origine, per tentare sfide considerate più remunerative ma finora rivelatesi quasi fallimentari, tipo il Metaverso di Mark Zuckerberg. Così, di fronte a nuovi guai si usano antiche ricette. Come appunto lo sfoltimento degli organici, pratica che Wall Street digerisce benissimo come dimostra il +4% di ieri con cui il mercato ha promosso Alphabet per i 12mila di Google mandati a spasso. Ma se la situazione dovesse peggiorare, i licenziamenti non rappresenterebbero come oggi solo una percentuale tutto sommato residuale dell'intera forza lavoro di questi giganti.

E allora, come ai tempi nefasti di Lehman Brothers, la gente con lo scatolone in mano tornerebbe ad agitare i sonni dell'America.

Commenti