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Regeni, il capo 007 depistava le indagini

Il colonnello Helmi e le altre tre spie affiancavano gli italiani. Insistendo solo su ipotesi e prove false

Regeni, il capo 007 depistava le indagini

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Incidente stradale, traffico di opere d'arte, una rissa finita male, una relazione omosessuale oppure una vendetta di una famiglia egiziana per le avance fatte alla figlia. Persino un movente legato al terrorismo. Sulla morte del ricercatore friulano Giulio Regeni, avvenuta il 3 febbraio 2016 alla periferia del Cairo, gli 007 della National Security le hanno dette proprio tutte. Tanto da destabilizzare, all'inizio delle indagini, gli agenti italiani dello Sco e i carabinieri del Ros, inviati in Egitto per indagare sull'omicidio del 28enne triestino. Indagini che sin dal primo momento hanno accertato che il giovane, prima di morire, era stato torturato. Per creare maggiore suggestione nella popolazione le false ipotesi investigative della polizia giudiziaria egiziana venivano riprese dai telegiornali nazionali e dai quotidiani dove i testimoni, appositamente indottrinati, rilasciavano interviste.

A processo per omicidio volontario, tortura e depistaggio, a Roma, quattro 007 egiziani accusati di aver seviziato a morte Regeni: il colonnello Uhsam Helmi, onnipresente durante i sopralluoghi degli investigatori italiani, Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahime e Magdi Ibrahim Abedal Sharif. In aula la testimonianza chiave dei vertici dello Sco, il Servizio centrale operativo della polizia di Stato. «Sono rimasto al Cairo dal 5 febbraio fino al 3 aprile. Eravamo in partenza, già in aeroporto - spiega il dirigente Alessandro Gallo dello Sco - quando da Roma il mio superiore, Vincenzo Nicoli, mi riferisce che sui giornali locali esce la notizia secondo cui erano stati trovati gli assassini di Regeni». Gli agenti italiani tornano indietro e incontrano i responsabili della National Security egiziana. «Erano contenti, come se il caso fosse risolto. Proiettarono un filmato in cui si vedeva un furgoncino bianco con persone che entravano e uscivano dal mezzo. Quindi si aggiungevano le audizioni di persone straniere, occidentali, che denunciavano truffe, furti, rapine fatte da falsi poliziotti che, con la scusa di controlli, bloccavano i turisti e li rapinavano». «A un'attenta analisi i nostri agenti accertano che il furgone inquadrato in varie immagini era ogni volta diverso. Il loro punto forte, dicevano - continua Gallo in aula - è che avevano i documenti di Giulio, la sua carta di credito, il tesserino universitario. Dunque erano stati loro, sottolineavano». Alla chiusura del caso, però, i componenti della banda erano già tutti morti. Ai genitori di Regeni vengono mostrati i volti dei loro cadaveri.

«Chiedemmo subito riscontri oggettivi - continua Gallo - ma non li ottenemmo».

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