Economia e finanza

Soros cede l'impero al figlio Alexander. L'erede: "Sono più politico di mio padre"

L'imprenditore lascerà il controllo dei fondi da 25 miliardi di dollari. E il rampollo di casa seguirà in tutto le sue orme

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C'è da aspettarsi che il nome Soros continuerà a risuonare a lungo, e a influenzare la politica occidentale (e l'informazione) anche più di quanto non sia accaduto finora. Anzi, quasi certamente l'eco di un «nome» abituato ad agire dietro le quinte di partiti e finanza diventerà più esplicito e prolungato nel tempo. Secondo il Wsj, l'uomo più detestato dai conservatori e dai nazionalisti di buona parte del mondo occidentale, George Soros, cederà il controllo dei suoi fondi azionari da 25 miliardi di dollari al figlio Alexander. E il rampante 37enne mette subito le cose in chiaro: «Sono più politico rispetto a papà, e con lui la pensiamo allo stesso modo...».

Nei giorni scorsi, Alexander - fan dell'hip-hop con solidi studi nelle migliori scuole del globo - ha già incontrato funzionari dell'Amministrazione Biden, oltre al leader della maggioranza al Senato Usa, Chuck Schumer. Ma pure svariati capi di Stato e di governo: dal presidente brasiliano Lula al premier canadese Justin Trudeau (quello «preoccupato per alcune posizioni che l'Italia sta assumendo in termini di diritti Lgbt», per intenderci). Insomma, quello di Alex sarà con ragionevole certezza un pronto intervento per difendere al meglio le «istanze» della fondazione di famiglia; anzitutto, in vista delle presidenziali americane. Alex ha già detto d'essere preoccupato per la prospettiva del ritorno di Trump alla Casa Bianca, proiettando la Open Society Foundation verso un ruolo finanziario forte nella corsa 2024. E c'è d'attendersi pure qualche takle in vista del voto Ue.

Dar contro al «potenziale dittatore» in nome delle democrazie da salvare (come il padre definì Trump a Davos sei anni fa), elargendo milioni a movimenti e Ong, è sport di famiglia. Ma la sua tela di relazioni è più raffinata, variopinta e da anni più internazionale di quella già ampia di George. Dall'Ucraina ai Balcani occidentali, fino all'Asia meridionale al Congo o al Sudafrica, le tappe di Alex «giramondo», come l'avrebbe soprannominato il fratellastro Jonathan (a cui molti avevano pensato per la successione), lo hanno reso quasi più famoso all'estero che in patria. Al Financial Times, Alex riassume così il suo programma: «Sostenere la causa della democrazia all'estero e difendere i diritti di voto e la libertà personale in patria».

In Senegal, lo scorso anno, ha discusso con il presidente Macky Sall «diversi temi di interesse comune». A Dakar è una star, un benefattore a cui mezzo governo ha steso il tappeto rosso. Ma cosa fa, a parte stringere mani e partecipare a cocktail di beneficenza? Dito nella piaga (destra); e tra poco penna sugli assegni. Un ruolo da comprimario degli eventi.

D'altronde dagli Anni '90, papà George - nato György, a Budapest, prima di realizzarsi come cameriere-studente a Londra fino a darsi alla finanza nella Grande Mela, facendo fortuna scommettendo sul crollo della sterlina - è l'uomo che più di ogni altro ha messo la filantropia al servizio delle pulsioni culturali progressiste. Per questo è la bestia nera di chi lo accusa di preparare il terreno al famigerato processo di sostituzione etnica, o di pagare campagne per l'uso indiscriminato di marijuana, fino all'ultimo fantasma: l'ideologia gender. George si accasò alla London School of Economics, frequentando Karl Popper.

Alex è cresciuto nella bambagia neworkese tra eventi di beneficenza e party con la «Pussy Riot» Nadya Tolokonnikova (famosa per aver filmato una preghiera anti-Putin prima di dedicarsi alle feste chic d'America); ha amicizie da Hillary Clinton a Barack Obama, stilisti e musicisti, vanta feste in pigiama con modelle e giocatori di football e una strada segnata da strette di mano ai democratici Usa, attivisti di Ong e dall'hashtag #BlackLivesMatter.

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