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Il precedente Il Parlamento di Mantova

RomaIl Parlamento padano? C’è già stato. Fu eletto il 26 ottobre 1997, quando nel pieno di uno dei tanti strattoni di Umberto Bossi verso la secessione il Nord, il Senatùr decise di forzare la mano e di far eleggere l’assemblea legislativa della Padania autonoma (detta Parlamento di Mantova) per sancire la secessione del Nord. Col senno di 14 anni dopo, un’elezione virtuale per un organismo virtuale di una secessione virtuale. Ma allora la politica dei palazzi romani non prese sotto gamba l’evento. Sì, è vero, qualcuno parlò di carnevalata. Ma fu lo stesso zelo del ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, oggi al Quirinale, che si affrettò a decretare la nullità del voto padano, a legittimare in qualche modo la valenza politica del voto padano. «Roma è lontanissima, è come se non esistesse», l’epigrafe del leader di Gemonio a una domenica che nella storiografia leghista ha la sua importanza.
Il popolo del Carroccio prese molto sul serio la consultazione. In tanti, in quella domenica, affollarono i 22mila gazebo allestiti per il voto. Tutti in fila, con in mano la carta d’identità di un Paese straniero (l’Italia), per votare per la propria patria del cuore. Peraltro senza grandi incidenti: le cronache dell’epoca segnalano un’auto della Guardia di Finanza fare le poste a un gazebo nelle Marche, qualche elettore identificato in Emilia: poca roba, e comunque alla periferia della Padania. L’ufficiosità delle operazioni elettorali impedì di attivare meccanismi che evitassero il voto multiplo, a cui probabilmente in molti ricorsero: secondo il Carroccio furono in 6.026.000, anche se stime più prudenti limarono il dato a 4 milioni. Comunque tanti. E tra loro di sicuro molti non leghisti.
Sulle schede gli elettori padani trovarono i nomi dei candidati suddivisi in liste che mimavano un arco costituzionale tutto lumbàrd. Allora servì questo per riscaldare una campagna elettorale piuttosto tiepida. Oggi, con il Carroccio spaccato tra maroniani e fedelissimi del cerchio magico, non servirebbe creare schieramenti posticci. Che scatenarono l’ironia degli esponenti del centrosinistra. Come il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, cui non parve vero di parlare di «metodi da socialismo reale. Liste in competizione che pretendono di rappresentare schieramenti inesistenti. Tu fai il cattolico, tu il liberaldemocratico, tu il sinistro. Non è una cosa seria». Lo spoglio fu anch’esso ufficioso e piuttosto laborioso. Quando vennero resi noti i risultati si scoprì che a vincere erano stati i maroniani (sempre loro) del socialdemocratico Delp (Democratici europei lavoro padano), con 52 eletti, tra i quali Marco Formentini e l’ex partigiano Giovanni Meo Zilio; poco dietro i «berlusconiani» di Liberaldemocratici Forza Padania (50 seggi) tra i quali facevano capolino Roberto Cota e Guido Pagliarini. Dietro ancora la Destra padana di Enzo Flego (27 seggi), i Cattolici padani (20), i «venetisti» dei Leoni padani (14), la Padania liberale e libertaria (12). C’erano, proprio così, anche i Comunisti padani, che elessero cinque parlamentari, tra i quali, udite udite, quel Matteo Salvini che oggi è eurodeputato; stesso bottino anche per i bucolici conservatori-agrari dell’Unione padana agricoltura ambiente caccia pesca.

Altre liste minori si spartirono i restanti 25 seggi, uno dei quali finì addirittura a Benedetto Della Vedova, allora espressione dei radicali padani e oggi finiano di ferro.

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