Cultura e Spettacoli

Quando la sinistra se ne infischiava dei poveri immigrati

Quando la sinistra  se ne infischiava dei poveri immigrati

Per fortuna alcune tragedie sono anche politiche. Solo così, una volta lasciata la pietà per le vittime a chi spetta (familiari, amanti e amici), riescono a non perdere la carica civile, l’onda d’urto etica necessaria a non farle smarrire nell’oblio collettivo. Il naufragio della Kater i Rades appartiene alla categoria. La vicenda è ripercorsa da Alessandro Leogrande in Il Naufragio. Morte nel mediterraneo (Feltrinelli, pagg. 224, euro 15).
È il 28 marzo 1997, un venerdì santo. Alle tre del pomeriggio la Kater, decrepita ex motovedetta militare, si stacca dal molo di Valona, Albania, «sfidando le leggi della fisica e del galleggiamento dei corpi». Organizzatore del viaggio, Lefter Çaushi, fratello di Zani, boss della mala locale. Costo del biglietto: da cinquecentomila a un milione di lire. A bordo ci sono centoventi clandestini, al timone il capitano-scagnozzo Namik Xhaferi. Dall’altra parte del Canale d’Otranto, invece, c’è la corvetta Sibilla della Marina militare italiana, comandata dal capitano di fregata Fabrizio Laudadio.
A un certo punto la Sibilla intercetta la Kater e, come da regole di ingaggio, inizia le sue «azioni cinematiche et di interposizione». In pratica bisogna dare filo da torcere, ma «in sicurezza» per sé e per gli altri, ai migranti che vogliono sbarcare in Italia. L’idea sarebbe quella di convincerli a fare dietrofront. È un valzer. Qualcosa tipo «vengo anch’io, no tu no». Alla fine, vuoi per le piroette che Xhaferi imprime alla Kater, vuoi perché Laudadio si lascia prendere un po’ troppo la mano, la Sibilla sperona la Kater. Che si capovolge. L’azione di respingimento diventa un disastro umanitario: 57 morti e 24 dispersi. Cioè 81 vittime, di cui 31 sotto i sedici anni.
Ora. Chi fosse interessato alla ricostruzione tecnica dello speronamento, alle successive indagini e ai processi che ne scaturirono, può trovare abbondanza di materiale e di ipotesi nell’accurato saggio di Leogrande (che a tratti ricorda, nella drammaturgia delle immagini e delle voci, i servizi di Ruotolo per Santoro, nel bene e nel male). Tuttavia, si diceva, quella della Kater è anche una tragedia politica.
A dirla lunga su questo aspetto ci sono le reazioni che ebbe all’epoca il governo italiano. O meglio: che non ebbe. Nessuno si reca a Brindisi, centrale delle operazioni di recupero: né il presidente del Consiglio Prodi, né il suo vice Veltroni, né il ministro della Difesa Andreatta né quello degli Esteri Dini. D’Alema, segretario del Partito democratico, il primo della maggioranza, collegio elettorale in Puglia, non ci va nemmeno lui.
«Il silenzio del governo è assordante» scrive Leogrande. «Il punto più basso della storia dell’Ulivo», scrive Goffredo Fofi, citato da Leogrande. A Brindisi si reca invece il leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi, e promette di «ospitare tutti quanti ad Arcore» i 34 sopravvissuti, che alla proposta reagiscono sdegnati. «Volevano giustizia, non elemosina» scrive Leogrande. E la giustizia, quella di carta, arriverà quattordici anni dopo, il 29 giugno scorso, quando Laudadio viene condannato a due anni e quattro mesi, e Xhaferi, ancora contumace, a tre anni e dieci mesi.
Nel frattempo, però, i «mandanti politici» si sono tutti acclimatati altrove, disperdendo le tracce della propria colpa. Tre giorni prima del naufragio Dini aveva scritto al suo corrispettivo albanese Arjan Starova una lettera dove, constatando il clima da guerra civile in Albania (il governo di Sali Berisha aveva portato il Paese al tracollo finanziario con una serie di speculazioni sulla pelle della gente comune), offriva la «propria assistenza per il contenimento in mare degli espatri clandestini da parte di cittadini albanesi».
Sotto mentite spoglie, si trattava di un blocco navale tout court, da sempre una cosa parecchio difficile da attuare in mare aperto, anche per i militari più esperti. Prodi (che più tardi si arrampicò sugli specchi per negare che fosse un blocco navale, chiamandolo «attività volta soprattutto a stroncare la malavita organizzata che gestisce gli espatri») e pure il suo ministro dell’Interno Napolitano lo sapevano perfettamente.
Ma in Italia era in corso la campagna per le elezioni amministrative. Il tema degli «albanesi pericolosi» era «dopato» in tutti i modi dai mass media, con la Lega che soffiava sul fuoco. L’Operazione Alba sarebbe partita di lì a poco: Rifondazione votò contro l’invio delle truppe, Alleanza Nazionale e Forza Italia compensarono, salvando il governo Prodi. Una specie di arco costituzionale, un comportamento schizofrenico. Tutti, d’altra parte, avevano fatto la loro scommessa elettorale: «Vedete bene, cari elettori, come difendiamo con passione i nostri confini». Tutti, per via dei centoventi disperati della Kater, persero la scommessa. La rottura con Rifondazione non si risanò, mentre la Lega continua ancora oggi a ventilare il blocco navale ad ogni emergenza, compromettendo, secondo Leogrande, il ruolo di potenza democratica al centro del Mediterraneo che l’Italia dovrebbe avere.
Tant’è che, come dice un anonimo alto ufficiale intervistato da Leogrande, «se uno va oggi in Albania vede che sono diventati tutti filoamericani. Non parlo della gente comune, parlo delle élite. L’Italia ormai la guardano dall’alto in basso. Loro ormai guardano all’America. Negli Usa c’è anche un’influente rivista della diaspora albanese.

L’Italia ha perso le sue chance».

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