Economia

Quei nodi da sciogliere per la ripresa del sistema fondi

L’industria dei fondi comuni d’investimento ha ancora un futuro? La domanda non è certo priva di fondamento alla luce dei segnali di declino ravvisati negli ultimi anni: una raccolta netta decisamente in rosso nelle stagioni dal 2006 al 2008 e per lunga parte del 2009

Quei nodi da sciogliere per la ripresa del sistema fondi

L’industria dei fondi comuni d’investimento ha ancora un futuro? La domanda non è certo priva di fondamento alla luce dei segnali di declino ravvisati negli ultimi anni: una raccolta netta decisamente in rosso nelle stagioni dal 2006 al 2008 e per lunga parte del 2009, con i gestori dei fondi esteri che hanno strappato quote di mercato agli operatori nazionali e con il numero dei fondi italiani in progressivo calo (oltre 600 in meno negli ultimi cinque anni). Con l’obiettivo di approfondire la situazione in corso e di verificare le prospettive del business, BancaFinanza ha organizzato, con Morningstar, la tavola rotonda Le Banche e il rilancio dei Fondi: le scelte distributive e la politica di marketing degli istituti di credito, la governance delle Sgr, i progetti delle Authority, il mercato, che si è svolta lo scorso 13 maggio nell’ambito dell’It Forum di Rimini. Alla tavola rotonda, che è stata introdotta da Davide Pelusi, amministratore delegato di Morningstar Italia, ed è stata coordinata dal direttore di Banca Finanza Angela Maria Scullica, hanno partecipato i relatori: Marco Barbaro, amministratore delegato di Bnp Paribas asset management; Franco Baronio, amministratore delegato di Banca popolare di Verona; Emanuele Carluccio, professore di intermediazione finanziaria e assicurazioni della Sda Bocconi di Milano; Dario di Muro, responsabile product management investments & insurances di Deutsche Bank; Maurizio Morgillo, responsabile direzione private banking della Banca popolare dell’Emilia Romagna; Piermario Motta, direttore generale di Banca Generali; Marco Rosati, amministratore delegato di Zenit; Massimo Scolari, segretario generale di Ascosim, l’associazione delle sim di consulenza; Andrea Viganò, country head per l’Italia Blackrock. Dal dibattito sono scaturiti diversi temi di riflessione e proposte per dare un avvenire ai fondi comuni.

Specializzazione dei canali «Vedo due grandi conferme nel sistema fondi», ha spiegato Baronio: «la prima è che il prodotto italiano domestico continua a perdere appeal, come testimonia il sorpasso degli Oicr di diritto straniero rispetto a quelli di diritto italiano. La seconda conferma è che ancora una volta e in qualsiasi scenario competitivo le reti di promotori finanziari hanno battuto di gran lunga le reti bancarie ordinarie. Le ragioni? Nel primo caso credo che il carico fiscale e l’inefficienza regolamentare abbia indotto a localizzare le proprie piattaforme all’estero, così da introdurre nuovi prodotti in modo più rapido. Sono dell’avviso che occorra fare chiarezza, sia a livello di authority che di regolamentazione, per consentire all’industria del risparmio gestito di radicare le proprie fabbriche in Italia. Altrimenti diventerà inesorabile lo smantellamento della nostra capacità produttiva, con una progressiva calata di operatori internazionali e conseguente processo di acquisizione e fusione con i nostri player nazionali». La seconda conferma evidenziata da Baronio è relativa al tema della specializzazione. «La scelta di specializzarsi nel collocamento del risparmio gestito è pagante. I promotori sono specializzati e il loro livello di formazione, di incentivi e di piattaforme informatiche dedicate ne decreta il successo. Le reti bancarie evidentemente non sono andate in questa direzione».

Secondo Baronio, in ciò va individuata anche una responsabilità indiretta della Mifid, che ha ostacolato l’affermazione del processo di specializzazione degli operatori nel mercato italiano. O meglio della interpretazione che della direttiva europea sui servizi d’investimento è stata data dai regulator italiani. «La Mifid era basata su alcuni concetti fondamentali: la tutela del cliente e la trasparenza. Soprattutto spingeva gli operatori di mercato alla consulenza sia nelle attività di prevendita che di postvendita e sia nelle attività di collocamento di strumenti collettivi che di accesso ai mercati finanziari. In Italia si è posto l’accento sul concetto della consulenza riferendolo a tutte le categorie di clienti, di operatori e di prodotti. In un mondo che premia la specializzazione pretendere un comportamento omogeneo da parte di tutti è stata a mio avviso una risposta sbagliata. La Mifid non ha aiutato lo sviluppo del risparmio gestito né spinto gli operatori a orientarsi in specifici segmenti di mercato».

Per Baronio, la soluzione è semplice: «Assodato che il futuro va verso una specializzazione per canale, occorrerà prevedere una regolamentazione ad hoc per ciascun canale». Ma quale è il futuro dell’industria dell’asset management, secondo l’amministratore delegato della Banca popolare di Verona? «Si tenderà a una progressiva concentrazione delle fabbriche, con una quota di mercato italiana che diminuirà nel contesto europeo e internazionale. Inoltre, sono convinto che il mercato andrà ancora di più a polarizzarsi, da una parte con canali distributivi dedicati al collocamento dei prodotti di risparmio gestito tradizionale come fondi comuni e gestioni patrimoniali, e dall’altra con canali che forniranno una consulenza di tipo generalista e con una più marcata capacità di indirizzo verso prodotti di raccolta diretta nel caso delle banche e verso prodotti assicurativi per quanto riguarda le reti assicurative e bancarie».

 

Architettura guidata alla selezione dei fondi Sul tema della progressiva affermazione dei fondi esteri si è soffermato di Muro. «Una tendenza molto evidente è quello della affermazione dei brand conosciuti a livello internazionale. Che ha diverse ragioni: la compressione dei margini sui prodotti, la necessità di coprire tutti i mercati e quella di offrire un servizio di assistenza di qualità con team di sales numerosi per raggiungere le reti di distribuzione. Questi sono fattori che hanno determinato la necessità di aumentare la dimensione con grande beneficio per i grandi brand favoriti in una logica di medio-lungo periodo. Come nel caso di Blackrock e Jp Morgan. C’è poi un’altra tendenza da parte dei distributori, di cercare cioè player sì di nicchia, ma che portino un vantaggio competitivo attraverso expertise su settori o mercati particolari. E questo è il caso di Carmignac in Europa e di Anima in Italia».

Di Muro offre il suo punto di vista su un altro tema di importanza capitale nel successo dei fondi comuni: il rapporto tra produttore e distributore e il via libera all’architettura aperta. «Da tempo ci siamo orientati per una architettura guidata. Mi spiego: il supermercato dei fondi non consente di attuare quel rapporto di partnership necessaria per veicolare idee e prodotti adeguati alle nostre reti. La nostra architettura guidata prevede una selezione di poche case d’investimento, massimo otto, con le quali sviluppare vere sinergie  nel tempo. A nostro avviso solo un reale sodalizio consente di lavorare in profondità e di vedere risultati di medio e lungo periodo».

Di Muro ha concluso il suo intervento, chiarendo il suo pensiero sulla specializzazione dei canali. «Non vedo bene una diversità di atteggiamento tra il canale dei promotori finanziari e quello degli sportelli bancari. La banca è presente su tutto il territorio, serve milioni di clienti e nel momento in cui la specializzo su prodotti di raccolta diretta tolgo ai clienti mass market la possibilità di ottenere consulenza sui prodotti del risparmio gestito a maggior valore aggiunto, come i fondi comuni».

 

Le nuove regole favoriranno la consulenza Una scelta, quella della selezione attenta dei produttori partner, che piace a Viganò. «Penso che in un’industria in evoluzione è sano che gli operatori siano selezionati sulla base delle loro qualità. L’architettura aperta è un fenomeno che ha avuto origine una quindicina di anni fa, quando Merrill Lynch annunciò che il suo ruolo fiduciario verso i clienti non permetteva più di collocare solo i prodotti di casa ma era arrivato il momento di dare i migliori prodotti del mercato. Da allora il fenomeno si è diffuso gradualmente ovunque. Anche in Italia, dove ormai i prodotti di architettura aperta rappresentano il 20% di quelli complessivi che la pone ai primi posti del mercato europeo. L’architettura aperta», continua Viganò, «fa emergere chi è meritevole e consente ai gestori di lavorare in modo indipendente. Non solo: l’asset manager ha la certezza che ogni euro ottenuto in gestione è stato raccolto non per rapporti industriali o per posizioni azionarie in comune con il distributore quanto sulla base delle performance del servizio reso al cliente».

Per Viganò è possibile in futuro una accentuazione del processo di concentrazione nel settore dell’asset management con una probabile polarizzazione tra colossi e realtà di nicchia. «La tendenza sarà sempre di più alla costruzione di colossi capaci di aggregare investitori, di avere talenti, contare sui migliori analisti, operare su tutti i mercati dove ci sono le opportunità di investimento. Ma ci sarà spazio anche per le boutique agili e riconoscibili perché sanno far bene una singola cosa. Un modello un po’ rischioso, perché in assenza di una gamma ben diversificata, se il prodotto di punta inizia ad andar male mette in crisi la realtà di nicchia». Ma per Viganò si sta affermando anche un altro tipo di polarizzazione, «nella richiesta di prodotti: da quelli di gestione attiva che non sempre hanno rispettato le attese degli investitori medi, a quelli indicizzati e passivi, capaci di replicare in modo molto efficiente degli indici».

Sul tema dell’affermazione degli Etf (prodotto passivo per eccellenza), penalizzata da un modello di remunerazione che spinge le reti tradizionali a focalizzarsi su prodotti a maggior valore aggiunto, il responsabile italiano di Blackrock ricorda come un più ampio utilizzo dei fondi passivi dipenderà dal progressivo consenso del mercato verso la consulenza finanziaria a pagamento. «Negli Usa il 70% dell’enorme volume degli Etf trattato è collocato da figure equivalenti ai promotori finanziari. Lì l’evoluzione normativa favorisce una reale advisory al cliente: non si parla più di commissioni di prodotto ma di una sola fee sul patrimonio. Il distributore così non è più in conflitto, offre assistenza su tutto e non carica il cliente di prodotti rischiosi solo per guadagnare di più. In questo modo il rapporto diventa davvero fiduciario».

Viganò ha chiuso il suo intervento ragionando sui possibili sviluppi della normativa. «Siamo in un momento radicale di cambiamento e la normativa ha un ruolo fondamentale nel cambiamento. Con la Mifid e soprattutto con Ucits 4 verrà ridisegnato radicalmente il mondo del risparmio gestito, a partire dalla remunerazione degli attori in campo. Si va verso un mercato più trasparente, che consentirà a chi fa qualità, sia sulla parte fabbrica sia sulla consulenza, di lavorare meglio nell’interesse dei clienti».

 

 

Dal prodotto al servizio Passare dalle regole al business non è scontato. «La Mifid ci chiede, e la Consob ci ricorda continuamente, che dobbiamo andare dal concetto della linea di prodotti al concetto di vendita di servizi», afferma Morgillo. «Sono suggerimenti appropriati, in particolare per la fascia alta della clientela, che poi comportano delle scelte. La nostra, per esempio, è stata quella di selezionare alcune case, di utilizzare piattaforme, e di assumerci la responsabilità di dare gli indirizzi. Crediamo, infatti, che il pallino della relazione debba sempre essere nelle mani del private banker, perché è lui che conosce il cliente ed è al relationship manager che spetta trovare l’equilibrio tra la domanda e l’offerta». Ma per Morgillo, sono necessari investimenti notevoli, oltre che nelle infrastrutture informatiche, anche sulle risorse umane. «Il vero problema, all’origine della diversa capacità e penetrazione dell’offerta delle reti di promotori rispetto alle banche commerciali nel sistema fondi, è il fatto che non si è investito abbastanza in formazione qualificata. E alla fine sono sempre le persone a fare la differenza. Nel nostro caso abbiamo posto un’attenzione mirata nei confronti delle nostre risorse, fornendo formazione di alto livello come prima risposta all’efficienza del servizio».

Morgillo ritiene che per il successo di un’architettura aperta nel tempo «occorra passare dalla consulenza Mifid, sul singolo strumento finanziario adeguato per il cliente, a un concetto di consulenza di portafoglio che è la risposta più efficace per i clienti private e affluent. Allo stesso tempo, bisogna trovare il modo per dare un buon servizio al mass market. Credo che questo sia oggi il problema più importante per le banche commerciali».

Morgillo tocca anche il tema del multibrand. Con quali criteri selezionare la casa prodotto? «Certamente il brand è fondamentale nelle scelte del distributore e in questo senso i grandi player hanno un vantaggio competitivo. Ma vedo un crescente mercato di nicchia dove emergono realtà anche italiane, con risultati interessanti. Sono convinto che in futuro assisteremo alla nascita di network di sgr di nicchia che si alleeranno per offrire alle banche, medie e piccole in particolare, una piattaforma di servizi».

 

Sgr di nicchia Il concetto espresso da Morgillo sul prossimo avvento di un network dei gestori di nicchia ha conquistato il favore di Rosati. «È uno spunto interessantissimo quello della creazione di un network di sgr piccole e specializzate, anche se purtroppo si scontra con la riluttanza di molte società di nicchia a mettersi insieme e a integrarsi. Un atteggiamento che non è certo lungimirante».

Rosati si è poi soffermato sul tema della specializzazione, che a suo avviso deve riguardare indifferentemente sgr e collocatori. «Che si stia andando verso una specializzazione delle forze di vendita lo dimostrano i fatti, con i promotori finanziari protagonisti nel collocamento di fondi comuni. Anche se la nostra esperienza di società di nicchia con canali distributivi bancari ci insegna che le banche italiane, quando vogliono collocare un prodotto ben determinato, lo fanno con risultati sbalorditivi. Di pari passo deve andare la specializzazione delle società prodotto. A mio avviso», continua Rosati, «scompariranno le società prodotto ibride, cioè quelle che non hanno una vera specializzazione, né gestori passivi né gestori attivi. Un fenomeno su cui ha influito la spinta delle autorità di vigilanza verso un appiattimento sui benchmark, con dirette conseguenze sulla mentalità dell’industria italiana che ha realizzato un 90% dei fondi di fatto semi passivi ma ben più cari di fondi passivi veri e propri».

Rosati è molto drastico sulla scelta delle sgr nazionali di trasferire parte importante della propria operatività in altri Paesi, come Lussemburgo e Irlanda. «Mi sembra assolutamente demenziale e suicida, dal punto di vista del sistema Paese, invogliare in tutti i modi possibili gli operatori domestici ad andare all’estero. Così come (e non me ne vogliano le case di gestione estere) anche quello di spingere oltre misura il collocamento di prodotti gestiti oltre i confini nazionali. Portare le fabbriche in Lussemburgo e le piattaforme di prodotto in Irlanda vuol dire che i back office vanno là, che i legali che lavorano in questa materia sono locali e così via. Si portano altrove centinaia di posti di lavoro che potevano tranquillamente essere realizzati in Italia».

 

Il ruolo dei promotori  Di leadership dei promotori nel collocamento dei fondi comuni ha parlato Motta, evidenziando al tempo stesso come la scarsa volontà nel proporre il prodotto da parte delle reti bancarie pesi come un macigno sul futuro dei fondi. «Nel 2009 le reti hanno raccolto circa 55 miliardi di euro in fondi comuni, il sistema banche ne ha persi circa 212. Anche nei primi tre mesi dell’anno la tendenza è confermata: 4 miliardi di euro con il sistema reti e -2,5 miliardi da parte delle banche. Se consideriamo che il settore delle reti ormai da più di dieci anni vale il 6% del risparmio delle famiglie italiane e se chi ha il 94% del mercato non pensa minimamente di proporre i fondi comuni, diventa difficile pensare che il settore possa crescere in termini dimensionali».

Sul macrotema della separazione tra sgr e banche per superare i possibili conflitti d’interesse nel collocamento dei prodotti, Motta assicura «che abbiamo risolto a monte il problema cercando di impostare il più possibile prezzi omogenei e soprattutto prevedendo remunerazioni alla distribuzione identiche. Nel momento in cui il nostro promotore viene remunerato nella stessa identica misura sia se colloca un prodotto di casa che un prodotto di terzi il problema del conflitto di interessi viene superato».

Altro aspetto importante è facilitare i professionisti della relazione nella scelta dei migliori fondi. «Sono circa 5.000 i prodotti oggi presenti sul mercato italiano. È impossibile che il miglior bancario private o il miglior promotore finanziario possa conoscere in maniera approfondita un tale numero di fondi. Ferma restando la scelta dell’architettura aperta, abbiamo pensato di fare un passo in avanti chiedendo alle case terze di gestire le nostre sicav, scegliendo da sé i migliori prodotti da collocare. A questo punto, avendo dato alle sgr la più ampia delega, riteniamo di aver fatto il miglior servizio possibile sia per la distribuzione che per il cliente finale».

Motta riflette anche sulla consulenza a parcella. «Con Morningstar abbiamo realizzato una piattaforma di advisory per seguire il portafogli dei clienti non solo sulla parte di gestito, ma anche sull’amministrato. Non credo che la consulenza vada promossa solo verso la fascia elevata della clientela. Anzi, riteniamo che possa essere proposta tranquillamente a tutta la clientela, a patto che le commissioni per l’acquisto dei prodotti consigliati in consulenza vengano ridotte sensibilmente».

 

le opportunità ci sono Il sistema fondi italiano è ricco di opportunità secondo Barbaro. In particolare, se un asset manager è straniero e di grande brand. «Per una società estera, lavorare in Italia è sicuramente una grossa sfida ma allo stesso tempo è anche un’opportunità. Il rapporto di Banca d’Italia spiega che l’incidenza dei fondi comuni sulla ricchezza finanziaria delle famiglie è pari all’8%, dieci anni prima era del 17%. L’8% ci pone al livello più basso nella zona euro. Quindi, ci sono ampie possibilità di risalire, ecco perché parlo di opportunità».

Un altro elemento importante evidenziato da Barbaro è la composizione dello stock fondi nel sistema italiano, «dove il 20% è azionario e anche qui siamo al gradino più basso della graduatoria europea. In Germania, la componente azionaria è del 40% e in Francia del 30%, ed è una significativa differenza».

Come intende affermarsi Bnp Paribas in un mercato particolare come quello italiano? «Il nostro gruppo può contare su un network di investment partner, una ventina di società altamente specializzate per asset class, stili gestionali e aree geografiche che mettono a fattor comune risk management, compliance, brand affermato. Tutte realtà capaci, al contempo, di mantenere una propria autonomia per creare quell’alfa di cui il mercato ha bisogno». Per Barbaro, la sfida ulteriore nel sistema è attuare una reale architettura aperta. «Gli attori del mercato dovranno recitare la propria parte senza ambiguità: il gestore dovrà fare il gestore, il distributore fare realmente il distributore e solo in questo modo si potrà facilitare l’apertura dell’architettura. Anche la crescente attenzione verso la consulenza degli operatori può ampliare il ricorso ai prodotti di terzi nelle pianificazioni».

 

Mifid inadeguata Per Carluccio, il calo del sistema dei fondi comuni è stato dovuto soprattutto a situazioni congiunturali. «I grandi gruppi avevano il problema di collocare le loro obbligazioni, conseguentemente la quota dei fondi non poteva che diminuire drasticamente. Ora si può girare pagina e ripartire». Ma il sistema fondi ha indirettamente sofferto anche dei problemi creati agli operatori dall’applicazione della direttiva europea sui servizi d’investimento. «I tanto sbandierati vantaggi della Mifid, capace di determinare l’avvento di una consulenza straordinariamente sofisticata, non si sono visti. La direttiva è stata fino a oggi deludente sia in termini di contenuti, sia per costi di profilatura della clientela, sia ancora per le false promesse di realizzare un portafoglio coerente al profilo di rischio. Profilare i clienti e classificare i prodotti singolarmente in cluster ha portato paradossalmente a esasperare il budget di singolo prodotto piuttosto che favorire l’analisi di portafoglio. Il fatto, poi, che non sia contemplato un questionario che ponga l’enfasi sul risultato complessivo di portafoglio e sull’orizzonte temporale è la prova più evidente che non si sta indirizzando verso una vera consulenza».

Tuttavia, per Carluccio, «visti i costi di infrastruttura e di profilatura sostenuti e vista la volontà di trovare una risposta alle carenze del risparmio gestito, è giusto che gli intermediari si rimbocchino ora le maniche per tentare di offrire servizi e non solo prodotti alla clientela. Le reti distributive bancarie», continua il professore di intermediazione finanziaria e assicurazioni della Sda Bocconi, «hanno tentato di mantenere la loro autonomia decisionale, il che è più che giusto. Ma avrei voluto vedere contemporaneamente un irrobustimento delle competenze per presidiare la selezione dei prodotti da collocare, la costruzione dei portafogli modello e la loro manutenzione tattica».

Discorso diverso per le reti di promotori finanziari, «che si sono irrobustite perché, per incrementare il business, era necessario sviluppare delle competenze di costruzione e di presidio dei portafogli, così da attuare davvero il multimanager e poter offrire servizi di consulenza». E a proposito di advice, Carluccio riflette sulla limitata diffusione dei prodotti passivi, veicolati con riluttanza dalle reti tradizionali. «Fondi pensioni e casse di previdenza che hanno fatto seriamente la loro asset allocation, hanno utilizzato prodotti passivi in percentuali che superano il 70%. Viene da chiedersi per quale motivo la stessa percentuale non dovrebbe caratterizzare il portafoglio del cliente retail. La verità è banale: dai prodotti passivi non arrivano riscontri commissionali soddisfacenti e quindi non conviene collocarli». La soluzione per Carluccio è una sola, «se il cliente dimostrerà di apprezzare il servizio di consulenza finanziaria a parcella si potranno tranquillamente inserire nei portafogli una buona fetta di etf o di fondi passivi. Ma quali sono le realtà che riusciranno a far pagare la consulenza alla clientela o che la stanno già facendo pagare? Sicuramente sono in grado di farlo le strutture di private banking come pure le reti dei promotori finanziari, mentre per i network focalizzati sulla clientela retail parlare di consulenza è impossibile, non ci sarebbe convenienza economica né sarebbe una soluzione efficiente».

Carluccio ha parlato anche della necessità di una doppia classe istituzionale per tutti i prodotti di risparmio gestito. «È la condizione necessaria per permettere a chi vuole fare consulenza a parcella di poter vivere di questo mestiere: perché se al costo della consulenza si aggiunge quello per l’acquisto di fondi della classe retail l’advice diventa poco appetibile».

Carluccio ha chiuso il suo intervento con una riflessione sull’importanza della formazione, «necessaria se si vuole offrire un servizio di qualità. Non è vero che il cliente non vuole pagare la consulenza. Chi l’ha proposta trova dei clienti che la pagano tranquillamente e serenamente perché ricevono un servizio trasparente e capiscono che cosa pagano rispetto a cosa ricevono. Il problema è un altro: chi sta affrontando la scommessa dell’offerta della consulenza a parcella ha la consapevolezza drammatica di dover consegnare un servizio di qualità, perché altrimenti c’è il rischio concreto che non venga rinnovato o acquistato. Queste realtà hanno compreso che bisogna irrobustire le competenze dei propri professionisti e offrire loro una struttura solida ed efficiente».

 

Un esame professionale per i gestori C’è chi ha fatto proprio subito il concetto di network avanzato dai relatori del convegno di BancaFinanza. Ci riferiamo al sistema delle sim di consulenza che si sono riunite in una associazione di categoria, Ascosim. «Le sim hanno avviato una collaborazione che si è poi formalizzata in un’associazione che ha lo scopo di far conoscere sul mercato il concetto del servizio di consulenza in materia di investimenti», ha spiegato Scolari. «Il secondo scopo dell’associazione è di sviluppare il coordinamento tra le diverse società che possono scambiarsi informazioni e risorse, così da operare al meglio. Il terzo obiettivo è quello di dialogare in modo unitario nei confronti delle autorità di vigilanza, cosa che abbiamo già iniziato e continueremo a fare».

Secondo Scolari, il futuro dei fondi comuni è strettamente legato all’affermazione della consulenza a pagamento nel nostro Paese. «Uno sviluppo corretto del servizio di consulenza in materia di investimenti e fornito in modo indipendente non può che contribuire alla crescita del risparmio gestito. Una tesi confermata, secondo il segretario generale di Ascosim, da quanto è accaduto in altri Paesi europei come la Germania e l’Olanda, dove a fronte di un maggiore sviluppo della consulenza in materia di investimenti è corrisposto un maggior utilizzo di strumenti di risparmio gestito». Per Scolari, infatti, «il servizio di consulenza deve coprire tutto il portafoglio, con un utilizzo di tutti gli strumenti finanziari disponibili sul mercato. Normalmente, nella consulenza si assiste a un maggior utilizzo di strumenti di risparmio gestito, siano essi attivi che passivi. Se il pricing è strutturato in modo tale da non generare distorsioni nell’utilizzo degli strumenti, credo che nel portafoglio ottimale suggerito da una società di consulenza possano trovare posto sia i fondi di qualità che gli Etf».

Scolari ha chiuso il suo intervento lanciando una proposta: è ora di istituire un esame anche per i gestori dei fondi. In Italia esiste un esame per fare il promotore finanziario, è previsto anche per il consulente finanziario ma è davvero paradossale che non sia previsto un esame per la professione del gestore. Chiunque può fare il gestore in Italia. «Come Ascosim», ha affermato Scolari, «auspichiamo che chi svolge l’attività di consulenza abbia non solo seguito corsi di formazione ma anche che abbia ottenuto risultati di qualificazione, abbia cioè superato esami fondati su standard internazionali.

Questo deve valere in tutti i campi della finanza, nella consulenza come nella gestione dei fondi».

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