Letteratura

Il filosofo Gentile. Fra Risorgimento e liberalismo, la via "fascista" alla democrazia

Ottant’anni fa avvenne l’assassinio del pensatore che aveva l’hegeliano Stato etico come riferimento

Il filosofo Gentile. Fra Risorgimento e liberalismo, la via "fascista" alla democrazia

Giovanni Gentile venne assassinato il 15 aprile 1944 da un commando gappista a Firenze. Nell'apprendere la notizia diffusa da Radio Londra, Adelina Croce, la moglie del filosofo, come racconta quest'ultimo, scoppiò in pianto ricordando «lui, nei primi tempi del nostro matrimonio, bonario uomo ed amico, da noi accolto a festa quando veniva a Napoli, nostro ospite». Ancora Croce: «tale la fine di un uomo che per circa trent'anni ho avuto collaboratore, e verso il quale sono stato sempre amico sincero, affettuoso e leale. Ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo».

Che Croce fosse stato scosso dalla notizia lo dimostra il fatto che cercò di saperne di più chiedendo al genero, Raimondo Craveri, che faceva parte del servizio di informazioni americano, notizie sugli esecutori. Alla risposta - «i partigiani» - commentò con una battuta amara: «ammazzano anche i filosofi».

Palmiro Togliatti, da un solo giorno ministro del nuovo governo Badoglio, elogiò invece l'uccisione del filosofo, «bandito politico», «camorrista corruttore di tutta la vita intellettuale italiana» nonché «uno dei responsabili o autori principali di quella degenerazione politica e morale che si chiamò fascismo». Sempre Togliatti volle ripubblicare su Rinascita, l'articolo del latinista Concetto Marchesi che concludeva con una frase, per la verità aggiunta da Li Causi, eloquente: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!». L'iniziativa del leader comunista aveva la finalità di attribuire al delitto una valenza filosofica e culturale: l'avallo dell'uccisione di Gentile da parte dagli intellettuali «sani» voleva significare l'espunzione dell'attualismo gentiliano, identificato con il fascismo, dalla tradizione speculativa italiana e apriva la strada alla conquista egemonica del potere culturale e politico da parte marxista nell'ottica di un gramscismo liberato da ogni debito culturale nei confronti dell'attualismo.

Che Gentile fosse il filosofo del fascismo è fuor di dubbio. Tuttavia non era mai stato davvero un vero politico, ma semmai un intellettuale e un organizzatore culturale. Mussolini lo aveva chiamato nel suo primo governo come ministro della Pubblica Istruzione nel 1922. A quell'epoca, Gentile aveva quarantasette anni e aveva dedicato la sua vita quasi esclusivamente agli studi di filosofia. Se la politica non lo aveva interessato molto, ciò non significava disattenzione per la vita pubblica: dallo studio di Hegel aveva recepito l'idea dello Stato etico, cioè dello Stato nel quale si risolveva l'individualità del cittadino e che inglobava idealità e valori spirituali non esaurendo la propria funzione in compiti amministrativi o di gestione. La nomina a ministro legò il suo nome a una riforma della scuola, nella sostanza, di ispirazione liberale modellata sulle proposte di suoi predecessori, a cominciare da Croce.

Il suo pensiero, maturato attraverso la rilettura del Risorgimento in una chiave culminante nella concezione dello Stato etico, era il punto di arrivo di una riflessione, avviata dagli hegeliani di Napoli - Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa - che mirava a realizzare l'unificazione ideale del Paese dopo l'unificazione politica. Era uno sviluppo della linea interpretativa, già presente nel suo lavoro giovanile su Rosmini e Gioberti, destinata a concludersi, come ha osservato Augusto Del Noce, nell'elevazione dell'idea di Risorgimento a categoria filosofica. Era anche una concezione del Risorgimento collimante con quella che, su un terreno più storiografico, avrebbe sviluppato anni dopo Gioacchino Volpe nei lavori sulla storia dell'Italia moderna vista come punto di arrivo di un processo che trasforma il «popolo minuto» in «nazione» e che a tale «nazione» fa acquistare consapevolezza e sostanza nella realizzazione dello Stato unitario.

Quando, nel 1923, venne offerta a Gentile la tessera ad honorem del Pnf egli l'accettò precisando a Mussolini di essere «liberale per profonda e salda convinzione» ma di essersi reso conto che il liberalismo come lui l'intendeva e «come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come realtà etica» non era rappresentato in Italia dai liberali ma dai fascisti.

Uomo, dunque, che si rifaceva alla Destra storica, ai suoi valori e ai suoi istituti, Gentile, al pari di molti intellettuali di formazione liberale, vide nel fascismo un movimento per ristabilire ordine e legalità, un movimento che - una volta costituzionalizzato e messa da parte la violenza squadristica - come nella logica di una sintesi hegeliana avrebbe rappresentato la continuazione del Risorgimento lungo una direttrice che, partendo dall'idealismo di Spaventa e della scuola napoletana, passava per Gioberti e Mazzini, non a caso da lui indicati come «profeti del Risorgimento». Insomma il fascismo di Gentile, quale egli andò teorizzando nei suoi lavori, era una sorta di liberalismo potenziato e presupponeva sia il rifiuto dell'idea del fascismo come rivoluzione, sia l'idea di una continuità storica e istituzionale.

Non è un caso che, durante gli anni Trenta, Gentile rimanesse, per quanto apprezzato e onorato, ai margini della vita politica occupandosi, oltre che dei suoi studi, di grandi iniziative culturali - come l'Enciclopedia Italiana cui fece collaborare autori insigni indipendentemente dalle loro convinzioni politiche - e di istituzioni, come l'Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, alle quali rimane legato il suo nome. I motivi dell'isolamento di Gentile appaiono, da quanto si è detto, comprensibili: il regime quale si era venuto realizzando con la mitizzazione dell'idea di rivoluzione e con l'adozione di una forma di governo fondata sul principio del capo carismatico - la figura del Duce - teorizzato da Max Weber e importato nella cultura politica italiana da Roberto Michels mal si confaceva con la tesi gentiliana della continuità, storica e istituzionale, fra Risorgimento e fascismo. Non è un caso, del resto, che in questi anni Trenta si registrasse, soprattutto nei giovani, una crescente fascinazione per un non meglio definito «fascismo internazionale», per la costruzione di uno «Stato nuovo», per la creazione di un «uomo nuovo», per il mito della rivoluzione.

L'isolamento di Gentile fu compensato dalla stima personale di Mussolini, oltre che dalle soddisfazioni che gli venivano dalle grandi iniziative culturali, dall'insegnamento universitario, dall'attività editoriale, dai compiti istituzionali di senatore del Regno. Peraltro, tale isolamento fu reso amaro da polemiche provenienti da ambienti filosofici e culturali avversi all'idealismo e da settori del fascismo estremista che lo accusavano di essere un liberale mascherato. Inoltre lo facevano sentire più estraneo talune scelte del regime, a cominciare dalla politica razziale che confliggeva con l'antinaturalismo del suo pensiero e che egli cercò di contrastare offrendo sostegno e protezione a non pochi intellettuali ebrei.

Tuttavia, quando le sorti del conflitto volsero al peggio e fu invitato, in un estremo tentativo di risollevare gli animi, a parlare in Campidoglio, non volle esimersi. Così, il 24 giugno 1943, un mese prima della caduta del regime, pronunciò quel Discorso agli italiani che lo riportò alla ribalta suscitando amarezza in amici e allievi e attacchi dagli avversari. Eppure da quel discorso, letto in filigrana, emergeva che per lui il problema non era tanto l'esito della guerra, quanto piuttosto la continuità storica della nazione italiana anche all'indomani di una prevedibile sconfitta.

A differenza di altri intellettuali a lui vicini anche dal punto di vista culturale - per esempio, Gioacchino Volpe - Gentile aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Lo fece, forse, per il suo «mussolinismo», più che per il suo fascismo o, forse, per la speranza che con quel gesto potesse ottenere la liberazione di uno dei figli, prigioniero dei tedeschi. Comunque sia, resta il fatto che il suo assassinio è una pagina nera della più recente storia italiana: con l'eliminazione fisica di Gentile si è voluto colpire un «simbolo».

E, anche, vale la pena di aggiungerlo, una filosofia.

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