Cultura e Spettacoli

Scolpire la carta come il marmo: Michelangelo scrittore

Bisogna immaginarlo, guardarlo e innamorarsi di questo Michelangelo che disegna a sanguigna sagome di blocchi di marmo, dirige i lavori nelle cave, sorveglia i cavatori, li conosce tutti per nome, Bello, Leone, Mancino, li paga uno per uno. E stia attento Andrea da Fiesole suo capomastro, perché pagherà soltanto gli operai che ha chiamato lui, e gli altri «non aranno la giornata»...
«Consumò Michelagnolo molti anni in cavar marmi», chiosa Giorgio Vasari nella maggiore delle sue Vite. Lo storico aretino mal sopportava che il maestro potesse avere «perso tempo» - troppo tempo a suo dire - «ora in questa cosa ed ora in quell’altra». Era «diligente», ricorda Benedetto Varchi, e si fabbricava da solo anche gli strumenti da lavoro, le lime, le subbie, le gradine; si mescolava da solo i colori, non si fidava di nessuno. Lavorava da solo, era ricco e viveva da povero, era generoso e buono. Mangiava da solo: «né amico nessuno mai mangiò seco, o di rado» perché «gli pareva d’essere obbligato».
La vita di Michelangelo, come viene raccontata dalle «carte» della casa fiorentina che conserva la sua eredità, lettere e disegni, appunti e poesia, è una spirale di passioni e delusioni, di volontà e silenzio, di concentrazione. Un vortice di tensioni contrastanti, un intreccio di spinte e controspinte. Architettura pura. Basterebbero queste sole carte, ora in mostra a Napoli, filigrana preziosa di una vita che già ai contemporanei parve straordinaria, a delineare un ritratto unico, di uomo, di scultore, pittore, architetto, poeta, figlio, fratello e zio tenerissimo, amico devoto, «pazientissimo ed in tutti i costumi modesto» (Napoli, Museo Archeologico, La Vita di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Ragionieri, fino al 23 agosto 2010).
Gli piaceva andare nelle cave, a Carrara e a Pietrasanta, col suo quaderno in mano, come se volesse sorvegliare e tenere a battesimo il taglio cesareo che separava il marmo dalla terra, dalla natura. Conteso tra Firenze e Roma fino all’ultimo, quando il nipote Leonardo trafugò il suo cadavere per riportarlo a Firenze, a guisa di «mercanzia», Michelangelo scrive molto. Lettere, poesie, contratti, conti, ricordi, e disegna. Vita e arte indissolubilmente legate: l’intuizione del genio convive col promemoria quotidiano. I versi si accostano alla modanatura di un capitello, un profilo della Sistina a un nome: soltanto la carta sa accogliere tutte le arti, le intenzioni e le opere finite.
La grafia conosce segrete ma continue evoluzioni, cambia a Firenze, cambia quando Michelangelo si rivolge ai principi, i più alti committenti, a Vittoria Colonna, quando rivede le poesie. Le lettere, che si conservano nell’archivio fiorentino che custodisce anche il maggior numero di disegni autografi dell’artista, seguono l’intero arco della vita, dalle prime scritte da Roma al padre nel 1496, alle estreme, di grafia stupendamente incerta, dirette al nipote Leonardo. «Non pensare a’ casi mia», dice il novantenne al nipote che lo mette in guardia contro i servitori; e grazie del «trebbiano ricevuto», per il quale ha tardato a rispondere, perché, scrive il 25 giugno 1563, «la mano non mi serve a scrivere...».
E poi ancora, nell’ultima, a meno di due mesi dalla morte: «altro non m’achade». Da allora metterà soltanto la firma. L’ultima firma di Michelangelo è vergata sotto una lettera scritta da Daniele da Volterra, l’allievo che lo vegliò fino alla morte. Vorrebbe rivedere il nipote, gli restano soltanto quattro giorni e per l’ultima volta gli si rivolge.

Per l’ultima volta, per il solo suo nome, stentatamente, fa uso di quella mano che ha cambiato il volto al mondo.

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