Se il reality show più vero lo fanno gli «sbirri» in tv

Dici reality e ti viene subito in mente una casa in cui un drappello di ragazzi euforici mettono in scena una versione edulcorata della realtà, molto spesso recitando a soggetto, influenzati dall’occhio vigile della telecamera. Guardi Sbirri, film uscito il 10 aprile dell’anno scorso al cinema e riproposto sul piccolo schermo due sera fa su Canale 5, e ti trovi catapultato in un nuovo genere, fin qui quasi sconosciuto alle produzioni italiane per il piccolo schermo. E l’unica definizione buona è: reality, vero reality.
Pellicole così difficilmente riescono a entrare nei nostri salotti, e per di più con un buon responso dell’Auditel: una finestra sulle nostre città che riesce a mostrarci come si vive davvero nelle nostre strade. Siamo a mille miglia dai reality show in cui la cosa più feroce a cui possiamo assistere è una scazzottata tra concorrenti o qualche incontrollato turpiloquio, Sbirri offre un forte impatto visivo, da pugno allo stomaco, per l’essenzialità della realtà nuda e cruda che trasmette: quella del mondo della droga. Un mondo visto in presa diretta grazie all’utilizzo di camere speciali capaci di filmare anche a chilometri di distanza e con il supporto di microfoni direzionali in dotazione ai servizi segreti. A maneggiare questo linguaggio cinematografico inconsueto in Italia è il regista Roberto Burchielli, non nuovo a queste prove (suo il documentario Cocaina andato in onda su Raitre nel 2007), che sembra attingere in parte alla real tv americana e in parte alla fiction televisiva. Un ibrido che colpisce semplicemente perché documenta la realtà, in questo caso la quotidianità di un gruppo di poliziotti dell’Uocd (Unità Operativa Criminalità Diffusa) di Milano. Un gruppo di agenti veri recita a fianco di pochi attori professionisti, tra cui Raoul Bova, il quale per assistere alle varie operazioni, ha vissuto con gli agenti per un mese intero e ha dovuto camuffarsi con tanto di cappello, occhiali e capelli finti. Retate, pedinamenti, arresti, interrogatori. Tutti veri, tutti spietatamente reali.
L’attore italiano interpreta Matteo Gatti, reporter televisivo che, dopo aver perso il figlio per assunzione di una pastiglia di ecstasy, decide di svolgere un’inchiesta sul mondo della droga alla ricerca disperata dei motivi della morte del figlio, pervaso dal rimorso di aver fallito come padre. In questa ricerca impara a conoscere gli sbirri, nell’accezione irriverente data dai giovani, le loro paure, i loro sentimenti, e li scopre persone che semplicemente per passione svolgono un lavoro delicato. Ma, soprattutto, ci fa conoscere i volti e le sensazioni dei giovani beccati, degli spacciatori, le retate così come avvengono, i discorsi tesi degli interrogatori, l’approccio psicologico che gli agenti usano con i ragazzi finiti nel giro.
E così la realtà ci entra in salotto.

Una vera sorpresa soprattutto a guardare il film in tv, in tempi in cui è difficile veder sperimentare nuovi linguaggi televisivi dalla emittenti ammiraglie. Si resta inchiodati a guardare, affascinati dalla novità. Forse da oggi la parola reality può cambiare senso.

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