Cultura e Spettacoli

"Il Bardo segreto? È nei versi per una misteriosa dark lady"

La traduttrice dei "Sonetti" svela il "manuale d'amore" in cui Shakespeare ha lasciato un vero ritratto di sé.

"Il Bardo segreto? È nei versi per una misteriosa dark lady"

Stando alla leggenda, William Shakespeare avrebbe composto i Sonetti durante la peste di Londra, alla fine del Cinquecento. Simbolo di cruenta esattezza: il vero contagio, qui, è l'amore, la pestilenza del desiderio che corrode corpo e mente, dilania il viso e sregola i sogni, «costringe/ a pianger di aver chi sai di perdere». Pubblicati nel 1609 da Thomas Thorpe, sfuggiti al pudore del proprio autore, i Sonetti hanno una sinistra grandezza, precipitano nei bassifondi dell'amare, avviano una tradizione (che passa per John Donne e arriva alle Birthday Letters di Ted Hughes). Andrebbero presi a morsi, incisi sulle pareti della camera da letto, questi versi: sono un autentico manuale d'amore, leccornia d'eros, giunto da un'epoca spericolata e bella mica come questa, anodina, esangue, che relega il corpo nell'artificio , in cui pensare significava sedurre e si penava in poesia. «Per te giuro di andar contro me stesso:/ colui che tu odi io non lo devo amare», canta Will, i cui Sonetti tornano in vita grazie a Lucia Folena, per Einaudi (pagg. XLIV+436, euro 32), in una versione elegante, aspra, smaliziata, in endecasillabi. Più che a Petrarca, i sonetti shakespeariani, per le atmosfere, livide e di temerario intelletto, sigillo di un sublime passatempo, rimandano a quelli di Michelangelo: anch'essi così scriveva Giovanni Testori sono «un efferato e sublime ricatto... dato che si disfa per troppa luce». Scritti «in questi tempi infetti», i versi di Shakespeare sono dedicati al fair youth forse Henry Wriothesley, conte di Southampton e all'enigmatica dark lady forse Emilia Bassano, discendente di ebrei sefarditi veneti, amante di un figlio bastardo di Enrico VIII, poetessa. Proprio intorno alla dark lady «si sono annoverate nel tempo candidate improbabili o addirittura assurde, dalla regina alla prostituta da angiporti, dalla mezzana arrivata dall'Africa alla nobildonna francese o spagnola», spiega Lucia Folena, che abbiamo contattato. In ogni caso, i destinatari non sono che gli attributi dell'unico dio dei Sonetti, il poeta. I versi, così, offrono l'autentico ritratto di Shakespeare: moltiplicato da un ring di specchi, egli è uno e plurimo, è lì e ci sfugge, pensiamo di vederlo ma è lui, l'artefice, che ci osserva, ci compie, ci scrive.

Che rapporto hanno i Sonetti con l'opera teatrale di Shakespeare, in che contesto nascono? E che valore ad essi assegnava il Bardo?

«I Sonetti hanno moltissimi rapporti coi drammi dal punto di vista delle immagini, delle scelte linguistiche e della rappresentazione dell'amore; e anche perché sono estremamente dialogici. Si sa poco della loro genesi; alcuni suppongono che risalgano in parte al lockdown del 1592-93, dovuto a una delle ricorrenti epidemie di peste questa fece 15.000 morti che comportavano la chiusura dei teatri e l'impossibilità di esercitare le professioni connesse. Del valore che Shakespeare dava ai Sonetti non sappiamo niente, ma il suo io lirico manifesta ripetutamente una forte coscienza della propria grandezza come poeta e del fatto che i suoi versi dureranno fino al giorno del Giudizio».

Lei parla della «irriducibile polisemia» dei sonetti shakespeariani: cosa vuol dire?

«L'irriducibile polisemia sta nel fatto che quasi ogni verso dei Sonetti si presta ad almeno due o tre letture diverse, il che fa sì che, ancor più di quanto avvenga per altri testi poetici, ogni traduzione sia essenzialmente interpretazione (e arbitraria disambiguazione e semplificazione); vengono in soccorso le note, che permettono di registrare le opzioni scartate».

Di che amore parla Shakespeare? A tratti, pare che l'amore sia l'altare su cui si erge la sua individualità lirica, assolata, «I am that I am»...

«Shakespeare non parla di un amore ma di due, contrapponendo programmaticamente la sublimazione neoplatonica e la carnalità più esplicita; ma è vero che la costruzione di queste due polarità gli serve per definire un io lirico tanto complesso e pieno di contraddizioni e sfumature da non essere neanche lontanamente paragonabile all'io lirico che si può trovare nei sonetti degli altri poeti dell'epoca; i due destinatari, in un certo senso, prima ancora che come personaggi, si potrebbero vedere come confini o contorni dell'io stesso».

Che criteri ha scelto per la traduzione?

«I miei princìpi fondamentali sono stati due. Intanto, che la bellezza è una forma di fedeltà: se l'originale è bello, una traduzione che non rispetti anche questa valenza estetica (oltre al senso, alla retorica, all'argomentazione, e così via) è necessariamente infedele. Il problema che di solito si pongono i traduttori è quello del rapporto (fondamentalmente sincronico) tra due culture, quella di partenza e quella di arrivo; ma c'è un'altra questione secondo me altrettanto centrale a cui non si presta abbastanza attenzione, ed è la necessità di salvaguardare in qualche maniera il rapporto fra due tempi, il presente e il passato (rapporto che entra in gioco anche per un lettore di madrelingua inglese nel confronto con un originale scritto più di quattro secoli fa). L'alternativa più comune è quella fra una traduzione che tende a modernizzare e a naturalizzare il testo e nei casi estremi lo trasferisce nel presente arrivando a cancellare la sua storicità e quella che nell'intento di preservarne l'originaria collocazione nel passato finisce talora per minimizzare o addirittura annullare il presente in cui vivono la traduzione stessa e i suoi lettori. Uno dei due tempi rischia insomma di essere abolito, o quasi, per mettere in luce l'altro. Io mi sono proposta invece di farli dialogare fra loro: ho pensato potesse essere un'operazione interessante quella di ricercare un equivalente non tanto dell'originale anche se ho provato a rispettare al massimo le sue strutture argomentative e sintattiche e le sue complessità semantiche quanto dell'effetto che esso può produrre su un lettore contemporaneo di madrelingua inglese. A questo sono dovute ad esempio l'occasionale scelta di accostare termini letterari desueti al linguaggio colloquiale, e la decisione di adottare una forma metrica tanto fissa e riconoscibile quanto quella dell'originale».

Ha tenuto conto dei precedenti o di traduzioni illustri come quella di Yves Bonnefoy, ad esempio?

«Ho tenuto conto dei precedenti in questi termini: cercando di fare altro. La traduzione di Bonnefoy è generalmente molto bella, ma, per quanto assai meno infedele di altre, ha un difetto: dentro ci si sente più il grande poeta Bonnefoy che il grande poeta Shakespeare; e a volte il senso del passato si perde, forse non proprio nell'atmosfera del presente come nelle traduzioni più radicalmente naturalizzanti, ma piuttosto in una dimensione atemporale e universale (niente di male, naturalmente; ma è molto diverso da quello che volevo fare io)».

Estragga un verso, un fascio di versi dai Sonetti che le sembrano emblematici, e mi dica perché.

«Sceglierei l'intero sonetto 144, quello dei due amori, che sintetizza tutta la sequenza e la sua problematicità: l'apparente contrapposizione allegorica tra il Bene e il Male incarnati dai due personaggi si decostruisce e mostra la sua illusorietà; il Male finisce sempre per trionfare.

Letti nel loro insieme, i Sonetti mostrano grande pessimismo, incentrati come sono sul tema della distanza tra la realtà e le immagini che la falsificano e che sono le uniche cose destinate a sopravvivere».

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