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Gioventù e smarrimento. L'analisi letteraria del dottor Mario Tobino

Torna "Il figlio del farmacista" del narratore e psichiatra viareggino morto trent'anni fa

Gioventù e smarrimento. L'analisi letteraria del dottor Mario Tobino

Quando, in pieno conflitto mondiale, nel 1942, Mario Tobino (1910-91) dà alle stampe il suo primo romanzo, Il figlio del farmacista, aveva alle spalle già tre libri di poesie. Visto il momento in cui appare, non ha praticamente alcuna accoglienza. Deve aspettare ventun'anni per riportarlo in libreria, ma a quel punto Tobino era già lo scrittore dei matti (per quarant'anni è stato primario di un ospedale psichiatrico vicino Lucca), aveva infatti dedicato all'esperienza manicomiale Le libere donne di Magliano (1953), e già vinto un Premio Strega, nel 1962, con un libro sulla sua esperienza partigiana, Il clandestino. Eppure, nella nuova edizione del 1963, sentiamo in Tobino ancora un coinvolgimento che quasi lo rende muto: «L'ho sfogliato, l'ho riletto: mi specchio mi smarrisco». Non rinnegava affatto l'opera giovanile, scritta quando aveva trent'anni, piuttosto si accorge che è proprio la giovinezza che lì regnava: «La gioventù è un mistero, non domanda nulla, vuole solo camminare nel mondo».

Quel romanzo d'esordio ora possiamo tornare a leggerlo in una nuova edizione per la rinata Vallecchi e con una introduzione di Giulio Ferroni (pagg. 96, euro 14). Ma come leggere questo libro alla luce di altri grandi libri di Tobino?

Vorrei fermarmi su due parole che ho appena trascritto: «smarrimento» e «gioventù». La prima la ritrovo in un romanzo più tardo, del 1972, che Tobino dedica ancora alla follia, Per le antiche scale. Osservando la vita di un matto, l'autore e psichiatra viareggino scrive: «Quando diciamo bicchiere tutti ci intendiamo. In un attimo raggrumiamo tante visioni di bicchieri e ne astraiamo una sola, conclusione di tutte (...) Se per qualche mistero uno perde questa capacità, questo semplice e meraviglioso meccanismo, se gli capita di dire bicchiere e non trova più l'emblema che lo rappresenta, che succede? (...) Dapprima ripete disperatamente la parola; di più si smarrisce a constatare che non suscita niente. La paura si unisce al dolore, la muta implorazione si tramuta in richiesta di pietà». Per la seconda parola voglio proseguire sullo stesso brano dello stesso libro: «Diventare uomini è afferrare i concetti, toccare il concreto. Si comincia bambini, si tartagliano le prime parole, ci si impadronisce della conclusiva immagine di un oggetto. La tromba! Voglio una tromba! Proclama il bambino ed ha ben chiaro il concetto, non lo si ingannerà».

Smarrimento e gioventù. Forse sono proprio questi due vocaboli la chiave d'accesso per leggere Il figlio del farmacista. La storia è raccontata non proprio da una terza persona che narra la scoperta della vita del figlio del farmacista, ma da una voce che a quel figlio della provincia italiana è talmente vicino da essere qualcosa di più che un amico. Viene da dire che quella voce sia la lingua alla quale Tobino ha assegnato il compito di tradurre un'esperienza di smarrimento e gioventù. Una voce che somiglia a una coscienza, se si trattasse solamente di un referto privo di qualunque coinvolgimento. È invece l'anima stessa di Tobino, di quel figlio del farmacista che nel romanzo impara per la prima volta a parlare. Ma imparare ad assegnare un nome alle cose, imparare una lingua, riuscendo a pronunciare un vocabolo traducendo la visione di un concetto astratto, significa anche attraversare uno smarrimento.

Questo romanzo è molto più importante, nella storia di Tobino, di quanto possa sembrare. Se è vero che nel Figlio del farmacista ritroviamo la scoperta della vita, la vita che, mentre la si vive, ci travolge nel suo essere nominata, dall'altra parte quella stessa vita ha bisogno di concretezza per acquisire una realtà. Qui Tobino non ha solamente raccontato del suo voler essere a tutti i costi un poeta, della sua ansia di saper attendere il canto del mondo, ma ha voluto far comprendere quanto il mondo, per essere raccontato, ci costringa a un'esperienza di smarrimento, di dolore. Negli ultimi capitoli del libro il figlio del farmacista si è già laureato a Bologna, ha lasciato Viareggio, la sua città, quella in cui suo padre, per 35 anni, ha alzato la saracinesca di una farmacia, insegnando il sacrificio, la discrezione e la dedizione a suo figlio. Quel figlio ormai è un medico ma ha scelto il manicomio, un luogo, dice, isolato, in cui poter stare in pace, fuori dai rumori e dai clamori che avrebbero potuto distrarlo dalla poesia. Ma non è propriamente un luogo di pace ma appunto uno spazio di dolore, quello in cui gli uomini smarriscono la realtà, facendo esperienza della disperazione. Se leggendolo quasi per intero poteva apparire come un romanzo sulla gioia di vivere, a un certo punto, nelle ultime pagine, avviene come una rivelazione. «Nel manicomio, dopo poco si accorse di poter parlare, pur rimanendo vigilante, i deliri dei diversi matti e tali voli poterli fare anche più ampi, e più brucianti di fosforo (...); si accorse dunque, dopo poco che viveva in manicomio, il figlio del farmacista, che i matti non erano per lui mistero ma con estrema facilità si impadroniva del loro pazzo pensiero tanto da poter discorrere la loro lingua».

È un passaggio importante, perché Tobino fa uno scarto sulla sua giovinezza e sul suo modo di pensare la lingua poetica. La poesia non è più l'attesa di una realtà che si traduce in lingua, ma attraversare appunto uno smarrimento, farsi carico del dolore proprio e altrui. I matti, ai quali Tobino non attribuisce alcuna ideologia romantica, gli insegnano invece a sapersi perdere, a entrare in quello spazio di mistero in cui la lingua che avevamo imparato e che ci aveva fatto diventare uomini dolorosamente si dimentica, per mutarsi in una realtà più vera del vero, in un «delirio» in cui le parole si incendiano dentro una visione estrema e concretissima. Quella visione è una voce che ci racconta dall'esterno, come dal fondo di uno specchio, come non fossimo più noi a farne esperienza.

Una visione in cui scorre tutta intera la realtà della vita.

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