Cultura e Spettacoli

I 100 anni di Sordi raccontati da Gervaso "Io, le donne, la fede e il maccarone..."

Nel 2000 sul Giornale l’Albertone nazionale si sottopose a un fuoco di domande del principe delle interviste: «Il personaggio più amato? L’americano a Roma. sarei stato un marito fedelissimo. Non ho paura di morire. Quello che diranno i posteri di me? Me ne frego..

Alberto Sordi, nato a Roma il 15 giugno 1920
Alberto Sordi, nato a Roma il 15 giugno 1920

Alberto Sordi, il suo mito, la sua maschera, l’uomo compie 100 anni. Non solo un pezzo di storia del cinema ma anche del nostro Paese, un pezzo della nostra vita. Per celebrarlo, e con lui l’autore dell’intervista, pubblichiamo il divertente botta e risposta che l’Albertone nazionale concesse sul Giornale del 13 marzo 2000 al nostro Roberto Gervaso, maestro di giornalismo recentemente scomparso. Un modo per ricordare entrambi, ognuno gigante della propria arte.

C’è in lui un po’ del Belli, un po’ di Trilussa, un po’ Pascarella. C’è la rivista, l’avanspettacolo, il cinema, la televisione. C’è tutto. E, su tutto, c’è Roma, e ci sono i romani, gli italiani più antichi, i conquistatori conquistati che credono nei santi e nei miracoli, nella fortuna e nella iella. Che si ritengono furbi finché non trovano qualcuno più furbo di loro che li fa fessi. Che si atteggiano a domatori di donne e infaticabili amatori, che tradiscono la moglie, tradendosi; che vendono fumo spacciandolo per arrosto, che si vantano d’imprese mai compiute e di avventure ma vissute. Chi, meglio di questo proteiforme, inimitabile attore, ha saputo incarnare, portandoli sullo schermo, i vizi e le virtù, le astuzie e le ingenuità, gli estri e gli umori di un popolo senza carattere ma pieno di fantasia, che si caccia nei guai, ma se la cava sempre. Un popolo che perde la guerra, anzi le «guere», ma non si perde d’animo, che nell’emergenza si rimbocca le maniche e rimette in piedi un Paese in ginocchio, trasformando la disfatta in boom. Alberto Sordi, ormai sulla soglia degli ottanta, è un pezzo della nostra vita, una pagina della nostra Storia. E non solo di quella dello spettacolo e del cinema, ma anche del costume. Non sarebbe ora di offrirgli il laticlavio come a Trilussa e a Eduardo? L’americano a Roma lo vogliamo a Palazzo Madama.

Non è più un uomo; non è più un attore»; non è più un divo: è un monumento nazionale. Ma anche - da trasteverino doc - un Marc’Aurelio a cavallo, l’erma di Pasquino, il busto di Meo Patacca.

A che età si scoprì attore?

«Ma io nacqui attore. Per istinto ho sempre amato esibirmi. A quattro anni facevo il chierichetto. Durante la messa non perdevo mai di vista il pubblico. E poi le recite scolastiche e, in pieno fascismo, il teatrino dell’Opera Balilla».

È vero che agli esordi le dissero “Non diventerai mai attore”?

«Si, Me lo disse l’insegnante dell’Accademia Filodrammatica».

Come motivò la fallace profezia?

«Non t’impegni, parli male. Invece di guerra, di ferro, di carro dici guera, fero, caro».E lei?«Sono romano e i romani, per indolenza, si mangiano le doppie».

Quanti anni aveva?

«Sedici».

La sua prima scrittura teatrale?

«In una compagnia di rivista con Guido Riccioli e Nanda Primavera. Sa la prima cosa che mi chiesero?».

Cosa le chiesero?

«Ce l’hai la giacca bianca».

E lei?

«E certo che ce l’ho».

Ce l’aveva?

«Mentivo. Ma era tale il desiderio di recitare… Una patrocina di due minuti. Poi, visto il successo, diventati dieci».

In che ruolo?

«In quello dell’illusionista: “A me gli occhi”».

Il suo debutto nel cinema come comparsa?

«In “Scipione l’africano” di Carmine Gallone nel 1937».

E come protagonista?

Ne “I tre aquilotti”, regista Mario Mattoli. Girato nel 1940 all’Accademia aeronautica di Caserta. Facevano scempio di donne».

Si cimentò anche come doppiatore

«Prestai la mia voce a Oliver Hardy (Ollio, il grasso)».

Che cosa deve all’avanspettacolo?

«Tanto, tantissimo».

Cioè?

«La conoscenza, e il timore, del pubblico che ti applaudiva, ma anche ti fischiava. Fino alle minacce. Da dietro le quinte, vedevi gli errori del comico, ne facevi tesoro».

I suoi maestri (se ne ha avuti)?

«Non ne ho avuti, e non ne ho cercati. A guidarmi è stato sempre e solo l’istinto. Ho fatto, e faccio, le cose che sento, le sole che so fare. Anche astratte, bizzarre, grottesche. Guardo la gente, m’identifico con essa. Sono l’autore di me stesso, figlio e interprete del neorealismo».

Cos’è stato Totò per l’arte comica italiana?

«Un fenomeno. Non gli mancava niente, la natura lo aveva eccezionalmente dotato. Lo favoriva anche la fisionomia: quella faccia inimitabile, con quel naso, quel mento, quella mandibola. Lo vedevi e ridevi. Geni come lui nascono, quando nascono, una volta al secolo».

E i De Filippo?

«Eduardo, Peppino, Titina: la più grande compagnia del mondo. Eduardo provocava la battuta, Peppino faceva esplodere la risata, Titina era la donna piacente, sensibile, amaramente comica».E Petrolini?«Il comico del regime, egocentrico e permaloso. Non l’ho mai conosciuto».

Gli ingredienti e i segreti della sua comicità.«Essere me stesso, rappresentare la gente qualunque, con i suoi tic, le sue ubbie, i suoi involontari eroismi, le sue malcelate virtù».

Le è più facile far ridere con il gesto o con la parola?

«Dipende».

Cioè?

«A volte basta uno sguardo: ammicchi, lanci un’occhiata, fai una smorfia e scateni l’applauso. Il gesto, la mimica, specialmente nel cinema, che è immagine, è più efficace della battuta».

Improvvisa spesso?

«Recito spontaneamente,come mi viene, senza sforzo».

Dove finisce il suo perfezionismo?«Non finisce e non comincia. Non mi chiedo mai se una battuta fa ridere o no. Se la sento la dico e basta».

Che cosa sarebbe stato di lei se fosse nato ad Abbiategrasso, Recanati o Comiso?

«Avrei fatto quello che ho fatto. Il sangue non è acqua, l’istinto è vocazione».

Quanti personaggi ha interpretato?

«E chi li ha mai contati? Tanti, centinaia. Sempre adeguandomi ai tempi che cambiavano».

Quelli che più ha amato o ama?

«È come chiedere a una madre a quelle figlio vuole più bene. Li ho amati e li amo tutti, non ne disconosco e ripudio nessuno. Ma, forse, quello che ricordo più volentieri è il giovane protagonista di “Mamma mia, che impressione”».

Il personaggio più amato dal pubblico?

«L’americano a Roma. Nel dopoguerra ma anche oggi, il Nuovo continente è il miraggio dei giovani con i suoi eterni miti: da John Wayne a Gary Cooper, da Ginger Rogers a Fred Astaire, da Sinatra a Elvis Presley».

Cosa rende grottesco un personaggio?

«Le sue manie, le sue debolezze, le sue velleità, le sue spavalderie, ma anche le sue ribellioni, i suoi piccoli altruismi. Pensi a “Tutti a casa” o a “Una vita difficile”».

E che cosa lo rende patetico?

«La battaglia perduta, la sconfitta, l’abbandono, la solitudine».

E tragico?

«L’epilogo stesso della vita comica per tre quarti e poi, quando cala il sipario, buia e profonda come un abisso».

Perché è così difficile far ridere?

«Perché basta far vedere al pubblico una madre che muore, una moglie che piange, un figlio che soffre per commuoverlo e strappargli le lacrime».

Perché ai funerali si raccontano tante barzellette?

«Perché il macabro, se non ti coinvolge direttamente, si presta a far ridere. Ma a far ridere è anche l’ipocrisia di chi segue il feretro perché non può farne a meno. Chi dice al parente del morto: “Ti sono vicino, pensa tuoi figli, la vita continua"».

Perché tanti musi ai matrimoni?

«Perché chi si sposa esce di casa, se ne va. E chi resta lo rimpiange, domandandosi: “Ma ne valeva la pena?”».

Le sue battute più gloriose?

«Mamma mia che impressione, Ammazza che fusto e Ma nun ce l’hai na casa?».

Quando l’ironia traligna in sarcasmo?

«Quando si incattivisce, s’avvelena».

Perché sotto le dittature si ride di più che nelle democrazie?

«Perché il potere assoluto, con la sua retorica demagogica, con le sue pose rutilanti e bombastiche, suscita più ilarità del potere democratico. Il dittatore può anche farsi amare ma, proprio perché dittatore, non può non assumere atteggiamenti ridicoli».

Quanti film ha girato?

«Centonovanta».

Perché tanti comici, nella vita privata, sono così noiosi.

«Forse perché prendo troppo sul serio il loro ruolo. Io, pur non riconoscendomi nei miei personaggi, quando l’interpreto mi diverto. E questo li rende più amabili e credibili».

Marito sarebbe stato un buon marito?

«Ottimo».

Anche fedele

«Fedelissimo. Il matrimonio è un sacramento, un dovere da compiere fino in fondo»

Lei quindi non avrebbe mai divorziato?

«Mai».

In amore è sempre stato corrisposto?

«Modestia a parte, si. E sa perché?».

Perché?

«Perché sono sempre stato conquistato».

Se una donna le resiste che fa?

«Non insisto».

E se una donna insiste?

«Me ne vado».

E se una donna dice di no è sempre no?

«Quasi mai».

E se lo dice un uomo?

«Idem».

Meglio le donne che compromettiamo o quelle che ci compromettono?

«Quelle che ci compromettono.Le altre sono un rischio».

È più complice l’uomo o la donna?

«La donna».

Che cosa le piace più di una donna?

«Tutto»

.Oggi a una donna che cosa chiede?

«La compagnia, l’amicizia, il buonumore».

Il suo piatto preferito

«I lumaconi con tanto sugo di pomodoro fresco, filetti di melanzane, polpettone e, d’inverno, una manciata di ricotta romana».

E poi?

«La pennichella».

In poltrona?

«Vuol scherzare? A letto, in pigiama. Un’ora e mezzo di sonno non me lo toglie nessuno».

La sua fede ha mai vacillato?

«Mai. Ne ho sempre avuta tanta. I sogni per me sono sacri. Come lo erano per mia madre».Cattolico, apostolico, romano?«Si. E praticante. La domenica sempre a messa».

Con che animo pensa all’Aldilà?

«Con animo sereno. La morte fa parte della vita. È l’ultimo suo capitolo. E, forse, il primo di un’altra».

Che cosa dirà, tra un secolo, al momento dell’estremo congedo?

«E che ne so? Certo se mi trovassi sul set, davanti alla macchina da presa, tutto mi sarebbe più facile, la battuta mi verrebbe spontanea».

Che cosa diranno di lei i posteri?

«Quello che vorranno.

Io, da buon romano, me ne frego».

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