Cultura e Spettacoli

La lotta per sopravvivere sull'isola deserta

Ecco la vicenda vera che ispirò a Daniel Defoe il suo grande classico: "La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe"

La lotta per sopravvivere sull'isola deserta

Lo ammetto, sono sempre stato un poco di buono, un attaccabrighe. Privo di un'educazione com'ero, a quattordici anni finii davanti al consiglio ecclesiastico per essermi presentato alla funzione domenicale ubriaco. A sedici presi a bastonate mio padre e mio fratello maggiore, accorso in suo aiuto. Un anno dopo lasciai Lower Largo, sulla costa orientale scozzese, e raggiunsi Kinsale, in Irlanda, per trovare un ingaggio su un bastimento diretto verso i mari del Sud. Non un mercantile, ma una nave che praticava la guerra di corsa. Avendo esperienza di mare, non fu difficile trovare chi mi arruolasse come marinaio. Salpammo il 17 settembre 1703. Il comandante era il famoso William Dampier. Per la verità non viaggiavo sulla St. George ma ero stato destinato alla Cinque Ports, alle dipendenze del capitano Thomas Stradling, che aveva l'ordine di seguire l'ammiraglia come un'ombra. Recavamo a bordo lettere di corsa del Lord Grand'Ammiraglio che ci autorizzavano a dare l'assalto alle navi spagnole e francesi. Non mi dilungherò sulla traversata atlantica, che si svolse senza episodi degni di essere raccontati. Vi basti sapere che, raggiunte le coste patagoniche, ebbe inizio la caccia ai galeoni spagnoli. Ma in almeno un paio di circostanze non fummo fortunati.

A febbraio, dopo aver doppiato Capo Horn, sostenemmo uno scontro in mare aperto con il St. Joseph, un vascello francese ben armato, e avemmo la peggio. Qualche settimana dopo, leccate le ferite, piombammo di notte sulla città mineraria di Santa María, nel territorio un tempo chiamato Castilla de Oro. Ma non riuscimmo a impossessarci di un solo grammo d'oro.(...)

I primi tempi presi la dissenteria, ma non è nulla se pensate che a molti toccava di peggio: tifo, colera, scorbuto. Per allontanare quelle terribili piaghe a maggio ci separammo dalla St. George e dirigemmo verso il Pacifico. A settembre calammo l'ancora in una rada presso l'Isola di Más a Tierra, la maggiore del minuscolo arcipelago di Juan Fernández, a centoventi leghe dalla costa. Speravamo di procacciarci cibi freschi e acqua sorgiva. Vi restammo un mese cacciando capre selvatiche, pescando gamberi, raccogliendo rape e approvvigionandoci di acqua fresca.

Quando il capitano manifestò l'intenzione di riprendere il mare gli feci presente che la Cinque Ports imbarcavaacqua e avrebbe avuto bisogno di riparazioni. Era già un miracolo essere arrivati fin lì. Non mi diede ascolto. Non perdevo occasione per ripetergli quel ritornello e lui ogni volta mi rideva in faccia. Cercai di portare dalla mia gli altri membri dell'equipaggio e, quando dichiarai che avrei preferito restare sull'isola piuttosto che affrontare il mare in quelle condizioni, egli scoppiò in una sinistra risata.

«Vuoi restare? Ti accontento subito. Signor Cole, fate preparare la scialuppa, fornite quest'uomo del necessario per la sopravvivenza e conducetelo a riva. Poi fate ritorno all'istante. Leveremo l'ancora entro un'ora».

Compresi che non avrei trovato un solo alleato in tutta la nave e che stavo per essere abbandonato su un'isola deserta. Mi prese il terrore e ancora me ne vergogno mi buttai ai suoi piedi e lo supplicai di tenermi a bordo con sé, magari in catene, pronto a essere sbarcato nel primo porto. Ma sul suo volto era comparso un ghigno che non lasciava scampo.

Mentre gli uomini remavano, dalla scialuppa non smettevo di rivolgere le mie preghiere a quell'odioso Stradling, che mi fissava tronfio dal pavese della nave. Fui deposto a forza sulla spiaggia e lì abbandonato con a mala pena il necessario per riuscire a cavarmela per qualche giorno: un moschetto, una pistola, una quantità vergognosamente scarsa di polvere da sparo, qualche strumento di navigazione, arnesi da falegnameria, un'accetta, una pentola, un piatto da cucina, del tabacco, una forma di cacio, una fiaschetta di rum, una Bibbia, un materasso e alcuni vestiti.

Mentre il galeone si allontanava sentii un groppo in gola e qualche lacrima mi rigò le gote. I primi giorni fui preso dallo sconforto. Non osavo addentrarmi nell'isola, da cui provenivano, specie di notte, strani gridi. Caddi in una così profonda melanconia da accarezzare l'idea di togliermi la vita. Mi cibavo di pesce crudo (aragoste, gamberi, granchi), dormivo sulla spiaggia sotto una tenda di frasche o talvolta in un'angusta caverna, che però con la marea si allagava.

Spesso mi svegliavo investito da un vento di burrasca che sconquassava la tenda quasi spazzandola via. Quando era bel tempo mi concedevo lunghe nuotate, benché temessi la presenza di pescicani, e mi rosolavo al sole.

Cominciai a leggere la Bibbia e con sorpresa mi accorsi che quella lettura mi era di conforto.

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