Cultura e Spettacoli

"La mia nuova sfida: faccio un pedofilo che difende i bambini"

A 83 anni, a Spoleto, l’'attore interpreta un professore che s'’innamora (platonicamente) di un ragazzo di 12 anni

"La mia nuova sfida: faccio un pedofilo che difende i bambini"

A guardarlo non si direbbe. Non è solo la vivacità intellettuale, l’ironia finissima, la simpatia inalterata, a rendere incredibili gli 83 anni di Paolo Ferrari. È soprattutto la curiosità che, dopo 78 - dicesi 78 - anni di carriera (debuttò a 5 col nomignolo di Tao: «il modo in cui il mio fratellino pronunciava il mio nome») ancora spinge quest’ineffabile signore della scena a tentare nuove, azzardate imprese. Come quella che, l’11 luglio al Festival dei Due Mondi di Spoleto, per la regia di Giancarlo Sepe, lo porterà a interpretare, per la prima volta e nella forma teatrale più impegnativa (il monologo), il ruolo di un omosessuale.

Allora Ferrari: per più di un’ora solo in scena, e nei panni d’un vecchio signore che s’innamora d’un ragazzino di dodici anni. Come le viene in mente, alla sua bella età?

«Ma guardi che è un testo magnifico! S’intitola Beniamino, l’ha scritto l’australiano Steve J. Spears, ed è la storia di un vecchio professore di eloquenza shakespeariana che campa correggendo i difetti di pronuncia di danarose signore. Nessuno sa della sua omosessualità, che lui rivela solo in interminabili telefonate a un anziano amico gay. Finché non gli affidano un dodicenne balbuziente, Beniamino. E lui se ne innamora. Scrittura splendida, alternanza di humor e dramma, per un’ampia gamma di possibilità interpretative».

E il rischio di una indiretta indulgenza verso un potenziale pedofilo...

«Quello del professore è un sentimento puramente platonico. L’innamoramento poetico per una creatura indifesa, talmente idealizzato da escludere qualsiasi implicazione morbosa. E il testo - pur non essendo un monologo a tesi, né pretendendo di lanciare alcun tipo di messaggio - chiarisce bene che l’omosessualità non va confusa con la pedofilia».

E così, a un punto della vita in cui molti attori fanno calare il sipario, lei si getta nell’ennesima sfida.

«Eh sì, sarà una bella sfacchinata. Solo in scena per più di un’ora. Ma il bello dei monologhi è proprio lì: in quella solitudine che ti getta in braccio al pubblico. Del resto, in 78 anni di carriera, pur non essendomi mai fatto avanti con nessuno, m’hanno fatto fare di tutto: cinema, teatro, tv, musical. Mi manca solo l’opera».

Ha perfino presentato il festival di Sanremo, nel 1960, assieme ad Enza Sampò.

«Esperienza deliziosa, divertentissima. Ricordo Mina terrorizzata dietro le quinte, che prima d’entrare in scena mordeva una mela ripetendo “Tanto la vomito”. Anche quella fu una scommessa: volevo dimostrare che un vero attore può recitare qualsiasi ruolo. Anche quello del presentatore. Manco a farlo apposta li avevo tutti lì, seduti in prima fila: Bongiorno, Corrado, Baudo, Filogamo. Ma superai l’esame».

E poi i cinefili l’adorano perché la voce di Franco Citti in Accattone di Pasolini, in realtà, è la sua.

«Io facevo doppiaggio in anni in cui era ritenuto il cimitero degli elefanti per attori di serie B. E invece imparai moltissimo. Da Humphrey Bogart, a esempio, del quale doppiai tutti i film (tranne Casablanca, ahimè) imparai a far passare le emozioni come faceva lui: quasi senza aprire la bocca, semichiusa nella famosa piega amara che serrava la proverbiale sigaretta».

Poi la pubblicità: in uno storico spot, lei fu l’uomo dei due fustini e del «bianco che più bianco non si può».

«Una simbiosi andata avanti undici anni. I miei colleghi storcevano il naso: “Ma piantala, così ti rovini la carriera!”. Però con i miei fustini io credo di aver portato qualche spettatore in più a teatro. Almeno quelli che pensavano: “Vediamo come se la cava in scena, questo che ci rompe le scatole in tv”».

A proposito di tv e dei suoi innumerevoli sceneggiati: ha visto il nuovo Nero Wolfe della Rai?

«Certo. La verità? Pannofino è un ottimo attore; ma Tino Buazzelli resta inarrivabile. E, se mi permette, il mio Archie Goodwin possedeva i requisiti d’ironia narrati da Rex Stout, che qui mi sembrano persi per strada. Per non dire dell’ambientazione romana. Anzi romanesca. Ma che c’entra con Nero Wolfe?».

I punti fermi, in una carriera così vasta e unica?

«Il protagonista che ho amato di più: quello di Anima nera di Giuseppe Patroni Griffi. E quello che m’è sfuggito sempre: Morte di un commesso viaggiatore di Miller. E il complimento che più apprezzo, quello secondo cui io, ormai, non recito più. Sono solo me stesso. Ho sempre pensato che recitare sia come camminare su un filo teso in aria. Bisogna arrivare dall’altra parte senza cadere.

Beh: io sto ancora lassù».

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